Ama flottant avec sa bouée présentant Awabi male et femelle lors du Mikazuki shinji . Awabi 鮑 signifie oreille de mer. C'est le nom japonais de l'ormeau, un coquillage qui devient rare. This shell is abalone and the japanese name is Awabi 鮑 which means 'sea ear'. In former times before resources rarefaction it used to be very profitable.
Secoli di tradizioni, una storia nipponica lunga più di 1500 anni, le Ama, letteralmente “donne del mare” (海女), belle, affascinanti e intriganti pescatrici di perle e di molluschi. Sono la nostra origine, la prima traccia della pescasub in rosa
Emanuela De Lullo
Mi sono da subito ritrovata nella loro figura leggendaria, nel loro amore per il mare, per il senso di appartenenza alla tradizione venatoria che rappresentano, per la solidarietà femminile che le aiuta a condividere le esperienze e i luoghi di immersione.
Vere e proprie eroine di altri tempi, la loro abilità nell’immersione era ed è proverbiale, con un’attrezzatura essenziale, a seno nudo, bandana attorno alla testa, vestite di un solo perizoma e un piccolo coltello ricurvo per rimuovere le conchiglie dal fondo, simboleggiano l’indipendenza femminile in un sistema sociale non tradizionalmente simile al nostro.
Ogni volta che vado in mare, in estate con il taglio freddo, o in inverno con le temperature glaciali, penso sempre a loro quando la rigida temperatura dell’acqua sembra togliere il respiro e mettere a dura prova la resistenza alla fatica, rifletto sulla fortuna che abbiamo ad avere attrezzature performanti di altissima fattura che ci permettono di livellare le difficoltà e concentrarci sulla performance e trovo lo sprone giusto per dare il massimo, tuffo dopo tuffo.
Tendenzialmente dedite al nubilato per questioni politico-sociali (sembrerebbe che il matrimonio con un uomo sprovvisto di licenza di pesca le privi del diritto di immersione), ma non rari sono gli esempi di coniugi che lavoravano insieme, i mariti dirigono le imbarcazioni a remi e le donne, collegate a una cima scendono cacciando verso i fondali perché considerate più adatte per la loro conformazione fisica, caratterizzata da strati adiposi maggiori rispetto all’altro sesso.
Questa visione romantica della coppia che affronta il mare a remi, con qualsiasi condizione meteorologica, per garantire la sussistenza familiare, in una vita risoluta, faticosa ma libera e felice mi ha spesso fatto riflettere sulla vita moderna e stressante che conduciamo e quanto possa influire sulle prestazioni sportive.
Seppur abili ed esperte, mi ha colpita e allo stesso tempo spaventata la leggerezza con la quale affrontano le immersioni, non per caso sono state fra le prime compagini assieme ai pescatori polinesiani delle Isole Tuamotu fra le quali è stata descritta la sindrome del Taravana.
Il modo in cui si immergono ha comunque dell’incredibile. Dopo aver preparato i polmoni con ispirazioni profonde di circa 5 o 10 secondi, effettuano un’ultima inspirazione senza riempire completamente i polmoni e partono, rimanendo in apnea per circa 2 minuti in media e per più di 4 ore al giorno. Le loro immersioni variano dai 20, 25 metri di profondità a pochi metri; diversi studi hanno permesso di codificare in termini temporali la loro attività subacquea per 15 minuti sul fondo ogni ora, 15 minuti sono utilizzati per le discese e 30 minuti dedicati al riposo. Quando risalgono emettono un suono, generato da una serie di fischi simili a quelli prodotti dai delfini e che nei secoli sono stati scambiati dai marinai in mare con il richiamo di splendide sirene. Il caratteristico suono malinconico “Isobue”, letteralmente “fischio del mare”, dipende dall’iperventilazione conseguente all’emersione e simboleggia per i giapponesi il duro mestiere delle Ama.
Vengono avviate a questa attività intorno ai 10 anni sotto l'insegnamento dall'anziana ama, ma soltanto verso i 20 anni sono considerare pronte a causa del duro addestramento scadenzato da antichi rituali e tradizioni.
Neanche la gravidanza riesce a fermare l’attività forsennata di queste piccole guerriere del mare, praticando le immersioni fino a qualche giorno prima del parto e riprendendo l’attività qualche giorno dopo, allattando fra le pause in mare e sfatando i luoghi comuni e credenze occidentali sulla modalità di gestione di un evento così bello e delicato per la vita di una mamma.
Purtroppo, come spesso siamo abituati a vedere, gli antichi mestieri e tradizioni, subendo l’inesorabile corso della modernizzazione, si evolvono verso un lento regresso e abbandono dell’attività da una parte delle nuove generazioni, che comunque resiste inesorabile al processo evolutivo.
Intorno alla metà del XIX secolo, si contavano intorno alle 10.000 donne in piena attività, di cui la metà con una fascia compresa tra i 30 e i 50 anni, un 30 per cento fra i 50 e i 60 anni e il restante 20 tra i 60 e i 70 anni; purtroppo oggi la percentuale è drasticamente crollata. Intorno ai primi anni 2000, l’età media delle Ama in attività era di 65/67 anni, con la donna più anziana di 87 anni.
Il numero di ama continua a diminuire mano a mano che questa antica tecnica diventa sempre meno praticata a causa del disinteresse per la nuova generazione di donne e della diminuzione della domanda. A oggi soltanto 300 ama si certificano ancora in attività equipaggiate secondo l’antica tradizione, soltanto di un leggero panno in vita, senza alcun ausilio per la respirazione, sostituite in gran parte da donne che utilizzano una muta completa.
Un elemento tradizionale che sembra però resistere alla prova del tempo è il foulard che portano in capo, figlio della superstizione. Ancora oggi sono ornati di simboli che fungono da porta fortuna contro il male.
Da secoli l’incanto della loro storia ha affascinato il mondo. Consiglio a tutti di ricercare un bellissimo reportage fotografico del 1954 di Fosco Maraini, un quadro meraviglioso di questa dimensione in via di estinzione.
Sull’isola di Honshū nella prefettura di Mie, è ancora possibile incontrarle, la loro attività più redditizia oggi è diventato il turismo incuriosito dalla loro figura leggendaria (recentemente sono state candidate all’Unesco come Patrimonio dell’Umanità) più che per il frutto della loro pesca. Sulla spiaggia, infatti, in appositi capannoni cucinano il loro pescato e servono i frutti di mare grigliati accompagnati dalla salsa umakunaru e dal tè verde.
Oltre la tradizione e la leggenda che le precede, questo excursus storico deve farci riflettere su un dato importante. Le donne a conti fatti non sembrerebbero quindi fisiologicamente così inferiori agli uomini in questa disciplina e vorrei dedicare un’attenta riflessione su questo argomento. In Giappone, le donne erano considerate subacquee superiori grazie alla distribuzione del loro grasso corporeo e alla loro capacità di trattenere il respiro. Hanno, per costituzione, una percentuale di tessuto adiposo medio più elevata di quella degli uomini, di consegunza dal punto di vista morfologico noi donne, seppure avvantaggiate dallo strato adiposo che ci rende androgine e ci avvantaggia nel contrastare la termoregolazione periferica, siamo nettamente inferiori nella propulsione della pinneggiata, che comporta comunque negli uomini un enorme dispendio energetico, intaccando inesorabilmente il consumo di ossigeno. Dunque, seppur meno possenti, nel bilancio generale, sulla carta, dovremmo essere un passetto avanti all’altro sesso, che però ha dalla sua una grande e lunga esperienza venatoria sottomarina dalla quale siamo ancora oggi molto lontane.
La muscolatura esile caratteristica di noi donne richiede un impiego di ossigeno minore nel contrarre le fibre che lo compongono, con il dispendio di minor energia ricavata dall’ossidazione dei composti energetici che per avvenire richiedono parecchio ossigeno, perciò a parità di movimento il consumo energetico è maggiore in base al numero delle fibre che si dovranno contrarre, donandoci un vantaggio importante rispetto agli uomini. Ne viene da sè che il metabolismo basale è maggiore negli uomini che possiedono uno sviluppo muscolare più accentuato.
Altro tassello fisiologico a nostro favore è la capacità vitale, ovvero la quantità massima di aria che può essere movimentata nel corso del singolo atto respiratorio, quando l’inspirazione e la successiva espirazione vengano forzate al massimo.
Anche se non può essere preso come dato assoluto, la capacità vitale è maggiore nelle donne rispetto agli uomini o, meglio, in soggetti di entrambi i sessi di pari costituzione, cioè altezza e conformazione, le donne risultano possedere una capacità vitale leggermente superiore.
Ma ciò non basta, è un piccolo vantaggio che senza costante allenamento perde ogni efficacia; le qualità psicofisiche legate alla capacità di rilassamento e alla gestione mentale del tuffo, livellano le differenze fra i due sessi.
Nonostante ciò noi pescatrici in rosa, siano veramente delle mosche bianche, forse perché culturalmente l’attività venatoria è sempre stata considerata una prerogativa maschile, ma abbiamo un compito importante, racchiuso in un filo conduttore invisibile lungo più di 2000 anni: quello di non far dimenticare le ama e la loro tradizione.
Ma la pescasub è tutta un’altra cosa. Troppi sono i fattori e le variabili che incidono su ogni singola performance e la maggior parte non dipendono da noi, ma dall’habitat che ci ospita e dalle condizioni meteomarine. Il nostro compito a oggi è quello di lavorare sodo, senza scusanti o attenuanti di sorta, perché il gap da colmare è ancora grande e senza un duro lavoro e la costanza ci sarà difficile recuperare lo stacco di genere che abbiamo con la compagine maschile.
Quindi ragazze, la storia è dalla nostra, la fisiologia anche, ora occorre lavorare sodo, tanto sacrificio, perseveranza e forza d’animo. La pescasub ci aspetta nel segno delle nostre antenate: le sirene del Mare.