Ritiratosi giovane dall’agonismo, ha iniziato a vivere il mare intensamente e intimamente, per 365 giorni l’anno. Ha un debole per le ricciole e per la pesca profonda
Emiliano Brasini
Ciao Andrea, è un piacere incontrarti per questa intervista perché ti considero, oltre che un fortissimo atleta, anche un personaggio che vive in simbiosi totale con il mare, per 365 giorni l’anno. Raccontaci come nasce questa tua passione.
«Credo sia iniziata quando sono venuto alla luce. Anzi, prima è nata la passione e intorno a questa si è sviluppato il mio embrione».
Hai un passato di agonista. Raccontami quando hai deciso di gareggiare, che risultati hai ottenuto e, soprattutto, perché hai smesso essendo così giovane?
«Ho partecipato per puro caso alla mia prima gara nel 2000. Con grande stupore riuscii a vincerla e da lì è scattato qualcosa dentro di me: la voglia di mettermi alla prova e di vedere fin dove sarei potuto arrivare. Per cinque anni di fila sono stato nelle posizioni di vertice ai Campionati di prima categoria e questo mi ha portato a coronare il sogno di vestire la maglia della nazionale. Per competere al top (in qualsiasi sport) occorre una motivazione fuori dal comune. E quando ho avvertito che tale determinazione stava scemando, ho preferito ritirarmi dalla scena agonistica. Adesso vivo il mare con tutt’altro spirito, senza stress, al pari di quando ero bambino, ed è un momento bellissimo».
In cosa consiste il tuo regime alimentare e, soprattutto, che benefici hai avuto nell’apnea?
«Mi piace sperimentare le cose su me stesso, quindi nel corso del tempo ho provato vari regimi alimentari. Ti posso dire che i più grandi cambiamenti in positivo dal punto di vista dell’apnea li ho avuti praticando il digiuno intermittente. Quando abitui il fisico (e ci vuole tempo e gradualità) non hai alcun calo di energia e grande lucidità mentale».
Sei supportato da due aziende leader del panorama mondiale come la C4 e la Dessault. Come e dove nasce in sintesi il tuo rapporto con la proprietà?
«E’ nato parecchi anni fa nel 2003 quando, grazie a Marco Bardi, entrai a far parte del team Omer. Ai tempi Marco Ciceri era il proprietario. Da allora è nata un’amicizia proseguita fino a oggi».
Cos’è per te il mare?
«E’ come una gigantesca, enorme calamita che mi attrae e dalla quale non posso e, soprattutto, non voglio separarmi».
Come definiresti il tuo percorso di pescatore?
«Molto lungo e graduale, al contrario di quello che accade oggi. Ho passato anni a studiare e a setacciare il bassofondo e, piano piano, mi sono avvicinato alla profondità, ma continuando sempre a pescare anche in pochi metri. Sì, perché l’istinto venatorio che contraddistingue il vero pescatore si forgia e si affina, a mio parere, nei primi 10, 15metri, non nell’abisso».
Vediamo alle domande importanti… Cos’è per te un tuffo fondo?
«Parlare di profondità è relativo perché scendere, ad esempio in apnea e senza fucile, a 45 metri d’estate con il mare calmo, l’acqua limpida, senza corrente e avendo tutto il tempo di preparare il tuffo in tranquillità, è una cosa totalmente diversa da farlo con un fucile in mano, magari d’inverno, anche solo a venti metri, con il mare mosso, l’acqua torbida, la corrente, dovendo mantenere la verticale del punto. Se poi ci aggiungi di essere magari in una competizione importante, gomito a gomito con altri atleti, il livello di difficoltà si alza di parecchio. Non hai il tempo neanche di compiere una respirazione completa e rilassante. Devi essere veloce, efficace, lucido. Quindi, saper scendere in apnea pura per conto proprio, nell’acqua calda e limpida, a 45 metri, ti assicuro che non garantisce neanche lontanamente che tu possa essere operativo nelle condizioni che ti ho descritto sopra anche solo a 15. Però, in entrambi i casi si può parlare di tuffi fondi. Tutto questo per dire che al di là del semplice conto dei metri, a mio parere per definire un tuffo “profondo” o meno, occorre valutare molti fattori».
Variabile sì, variabile no; pro e contro di questa tecnica di cui sei un precursore…
«Pesco abitualmente in assetto variabile. Ritengo che vada ad aumentare la sicurezza, a patto di seguire la regola fondamentale di scendere con il piombo, alle stesse quote, alle quali sei in grado di pescare in costante. Impiegare il piombo mobile, o sganciare la cintura, è come usare l’ascensore anziché le scale. Ma tu devi essere in grado, volendo, di farti 5 rampe di scale in scioltezza, senza affanno; in caso contrario ti devi scordare di salire in ascensore. Sono sceso per la prima volta a 45 metri nel 2003 e fino al 2018 ho sempre pescato entro i 40 in assetto costante. Solo negli ultimi 6 anni ho cominciato a usare sistematicamente il piombo mobile, ma sempre alle stesse quote che ho fatto mie in oltre vent’anni di regolare attività. Quindi, il concetto è non andare ad aumentare la profondità utilizzando il piombo come un “doping”, bensì sfruttare il variabile per diminuire, se non azzerare, lo sforzo sulle gambe in risalita. Inoltre, aggiungo che non sono un amante delle discese troppo veloci, che ritengo anche pericolose per gli sbalzi repentini di pressione. Ecco perché non utilizzo mai troppa zavorra in discesa, solo una quantità sufficiente per essere facilmente negativo con la muta che indosso in quel momento ma mai eccessivamente. Da diversi anni ormai è pieno di “apneisti armati” che scendono a quote vertiginose a folle velocità. Però non è lo stile che sento mio. Scendo in profondità perché mi dà belle sensazioni, la pressione è come l’abbraccio del mare: è una cosa che amo e che mi rilassa. Inoltre, posso incontrare pesci quasi ormai assenti a quote basse, ma nel mio Dna rimango un pescatore. E come tale preferirò sempre andare alla ricerca della preda e non dell’abisso. Se quel giorno, magari per le condizioni di acqua ghiacciata, il pesce si trova nei primi 10 metri, sarò ben felice di andare a insidiarlo lì.
La tua preda preferita e, soprattutto, come la prendi?
«Quella che mi dà più emozione è la ricciola. E’ un vero spettacolo poterla ammirare sott’acqua. Una volta colpita si è solo a metà dell’opera perché, a meno di non averla fulminata, il combattimento è sempre impegnativo. Come molti la insidio all’aspetto e, in certi periodi dell’anno, anche in caduta, con discese lentissime, a foglia morta, quasi in orizzontale».
Sai che a breve verranno realizzati diversi altri parchi marini, il cui accesso sarà vietato in pratica solo a noi subacquei. Qual è il tuo punto di vista.
«Purtroppo, nei parchi italiani vedo che la tutela del mare non è il reale obiettivo. Lo scopo di realizzare zone protette più grandi possibili per avere accesso a più fondi. Poi, dopo qualche anno, quando i soldi sono finiti, l’area marina viene abbandonata a se stessa e chi è senza scrupoli o non ha nulla da perdere ci pesca lo stesso. Se il fine fosse realmente la tutela dell’ambiente, il prelievo professionale sarebbe il primo a essere bandito, in ogni sua forma. Le aree sarebbero di piccole dimensioni, in modo da poterle controllare bene giorno e notte. Infine, andrebbero chiuse a rotazione nel corso degli anni, così da dare a ogni tratto di mare il giusto riposo».
Secondo te potrebbe essere una soluzione la licenza di pesca sportiva per formare un movimento ufficiale con diritti e doveri?
«Non sono contrario all’introduzione di una licenza, ma il problema è un altro, la gestione delle cose in Italia. E qui torniamo al discorso sulle Amp…».
Per chiudere, raccontami un episodio che mai dimenticherai.
«Febbraio di 3 anni fa. Mi trovavo all’alba in gommone ad alcune miglia dalla costa, nel silenzio più assoluto, su un mare completamente liscio. A un tratto sento un respiro potente e a circa 30/40 metri da me vedo una grossa balena puntare a dritta del gommone. In quell’attimo mi si è fermato il cuore. Ho pensato dentro di me: se questa si sbaglia e mi rovescia sono dolori. Invece si è inabissata e non l’ho più vista. Ma la scena rimarrà sempre nella mia mente».