Con Gianfranco Giannini è il più longevo della storia e si appresta ad affrontare una nuova e difficile sfida, il prossimo Campionato del mondo che si svolgerà in Brasile
Emiliano Brasini
Marco Bardi atleta e Marco Bardi Dt della nazionale. Due carriere parallele e complementari, entrambe caratterizzate da una notevole longevità.
In questa intervista ripercorriamo il percorso “da capitano”.
Sono tati anni che sei il Dt della Nazionale. E’ forse un record?
«Hai visto bene, sono andato a verificare l’albo storico dei CT della Nazionale e ho scoperto che ho eguagliato il record del mitico Gianfranco Giannini, che ho avuto come CT quando ero atleta, il quale ha fatto 10 anni. Oltre a lui c’è un lungo elenco di persone con gestioni più o meno brevi, a dimostrazione di quanto non è semplice restare in questo ruolo. Per me sono 9 anni consecutivi, più un anno nel 2008 con il mondiale in Venezuela, dove poi avevo dovuto abbandonare sia per motivi di lavoro che per altre ragioni. Nel 2016 sono stato richiamato ed ero più disponibile, ma non avrei mai scommesso di restare così a lungo».
Raccontaci cosa è cambiato in questi 10 anni di direzione da parte tua?
«Prima di tutto è cambiato l’intero panorama agonistico. Da fuori non ci si rende conto, ma partecipando di anno in anno si vede bene ciò che sta accadendo. Ci sono molte nazioni in forte crescita e se ripenso a quando gareggiavo, ricordo che c’erano solo 2 o 3 Paesi forti, mentre gli altri facevano numero. Oggi invece alcuni di questi sono diventati davvero forti. Basta riguardare le classifiche di quei tempi e si vede bene che in cima alle classifiche c’erano sempre le stesse nazioni. Ma oggi non è più così e inoltre non c’è più il divario di prima. Questo dal mio punto di vista è un bene per lo sport perché lo rende più competitivo. Solo a chi piace vincere facile spera nei limiti altrui, mentre chi vuole avere le vere emozioni, preferisce una sana e combattuta competizione. Poi, nel nostro caso è cambiata la mentalità e la predisposizione degli atleti, che era di fatto il primo obiettivo richiesto dalla Federazione quando ho preso l’incarico. Adesso c’è molta più squadra e meno egoismi e questo giova al risultato ma anche al piacere di ogni atleta che ne fa parte. Non dimentichiamo che in quanto disciplina non professionistica, siamo costretti tutti a enormi sacrifici e quando non ci sono i soldi, serve tanto entusiasmo, altrimenti non si va da nessuna parte».
Veniamo accusati spesso di essere i responsabili dell’impoverimento del mare, anche a causa delle gare. Quale potrebbe essere l’iniziativa per sbugiardare questa leggenda?
«Purtroppo questo è un argomento che ci raccontiamo tra di noi, ma fuori la vedono diversamente. Fino a quando ci accontentiamo di ciò, come facciamo da decenni, non ci sarà alcun miglioramento. Servono più fatti e meno parole. Ad esempio, gli studi effettuati dal team scientifico della Federazione con la raccolta dati nelle competizioni, ha portato a stabilire con certezza e con documenti inoppugnabili che gli atleti di massima categoria, quindi i migliori, catturano una media di 0.8 chili di pesce per ogni ora di gara. Si tratta di una media degli ultimi 10 anni di competizioni al top. Questi dati sono stati pubblicati e approvati anche su riviste scientifiche accreditate, per cui abbiamo la prova (fatti e non parole) che anche nelle competizioni il prelievo è irrisorio se confrontato con altre attività. Approfitto per fare i complimenti al professor Terlizzi e al suo staff che hanno raccolto i dati e li hanno pubblicati. Fondamentale il contributo della Federazione, che ha permesso tutto questo. Però, a mio avviso non basta e servono altre operazioni dove possibile, oltre a un netto cambio di mentalità, perché il peggiore limite che abbiamo sono appunto i numerosi punti di vista che ci dividono tra praticanti. Ricordate il famoso modus operandi dell’impero Romano con cui conquistavano i successi? “Dividi et impera” Noi siamo pochi e dobbiamo restare uniti anche perché il nostro punto di forza non è di certo il numero, ma la forte passione, che poi è il motore di ogni conquista. Però se ci dividiamo diventiamo troppo vulnerabili e tutti potremmo perdere tanto. Ad esempio, sarebbe il momento di creare delle linee guida, alle quali attenersi, proprio per generare un’unità di intenti e una guida ufficiale da seguire. Il problema è che oggi come oggi se chiedi a un pescatore di conoscere e seguire delle linee guida, spesso non ne comprende l’importanza perché è qualcosa di nuovo e quindi viene visto con diffidenza o con fastidio. Invece, a mio avviso sarà l’unica strada possibile da qui in avanti, anzi più tardi lo faremo e più ce ne pentiremo».
Cosa ti piacerebbe cambiare nel mondo delle gare nazionali e, soprattutto, internazionali?
«Prima di tutto sono dell’idea che i regolamenti nazionali e internazionali dovrebbero essere più simili possibile, altrimenti se ognuno fa come vuole non si ottiene niente di buono. Secondo me anche qui servono delle linee guida per uniformare pure gli aspetti organizzativi affinché ogni gara sia entusiasmante, garantisca uniformità, possa dare la possibilità a tutti di esprimersi. Dobbiamo sviluppare più buon senso, più fiducia, più tolleranza e adeguarci alle regole, altrimenti sarà un crescendo di caos. Una competizione deve essere una gioia, un’occasione e non un sacrificio. Deve essere entusiasmante per chi la svolge e per chi la segue, altrimenti diventa sterile. Questo a qualsiasi livello».
Siamo alle porte del Campionato assoluto a Gallipoli, gara interessantissima per la presenza, se non erro per la prima volta, di oltre 50 atleti. Sensazioni?
Sarà un bel banco di prova. Credo sarà un bel campionato e immagino che porterà a nuove strategie per cui ipotizzo potrebbe diventare più entusiasmante del solito. Calcola che quando partecipiamo a gare internazionali ci sono mediamente dai 50 ai 75 atleti in gioco, infatti confermo che ciò che cambia più di tutto sono le strategie in confronto a una gara nazionale in 30. Stavolta gli atleti si troveranno in qualcosa di nuovo e come spesso accade a qualcuno piacerà e a qualcun altro darà fastidio. Credo che ogni atleta debba attentamente riflettere su questo e capire che dovrà cambiare approccio rispetto a prima».
È stato confermato il mondiale in Brasile, un Campionato sicuramente bellissimo, dal fascino tutto particolare. Cosa ne pensi?
«Sì, è tutto confermato. Siamo appena stati informati di questo e abbiamo iniziato la prima fase organizzativa. In questa fase iniziale si cercano i pezzi del mosaico, poi una volta studiata la situazione e trovate le risposte, si passa alla parte in cui si posizionano i pezzi e si va avanti. Sembra che si pescherà in una zona oceanica non troppo ricca di pesce, ma con fondali rocciosi e a profondità variabili, con molte specie a noi sconosciute. Per cui, come spesso accade, ci basiamo sulle prime informazioni, ma poi fino a quando non siamo sul posto è difficile fare previsioni o tattiche. Cercherò di predisporre una squadra eclettica, che sappia pescare a qualunque quota e con qualsiasi tecnica e, soprattutto, che sappia fare gruppo nel modo migliore, per lavorare bene. Non sarà una gara facile, ma oramai quelle non esistono più e quindi dovremo fare attenzione a qualsiasi dettaglio».
C’è qualcosa di simile tra la nazionale di pesca e quella di altri sport?
«Ci sono un’infinità di similitudini e avendo la fortuna di conoscere diversi allenatori di alto livello o CT di altre discipline, mi sono ritrovato più volte a confrontarmi appunto su tali similitudini. La più evidente è come sia più produttivo scegliere gli atleti che sanno ciò che va fatto, come lo devono fare, come si devono organizzare, come si devono comportare, rispetto a quelli che si credono fenomeni e si sentono in diritto di fare ciò che vogliono, creando divisioni all’interno di una squadra. Oppure, quanto è importante che ogni atleta partecipi con serenità, entusiasmo e fiducia, rispetto a quello che partecipa ma non è contento, né concentrato in ciò che deve fare. Ogni atleta ha momenti top e down, sia motivazionali che di prestazione e spesso il momento fa la differenza. Gli umori nascosti, i problemi lasciati da parte, le insoddisfazioni represse e così via sono il rischio di ogni insuccesso, sia individuale che di squadra. C’è chi tende a criticare tutto, a esternare insoddisfazioni continue, ad arrendersi senza lottare, per cui penalizza anche gli altri. Questa è la similitudine di ogni disciplina agonistica ed è il motivo per cui, a volte, il risultato è totalmente diverso da quanto ci si aspetta».