Lo scorso 12 e 13 Aprile si è tenuto a Y-40 un corso avanzato sull’argomento, che rientra in un’iniziativa globale portata avanti da Aida International in collaborazione con Vertical Blue. Abbiamo colto l’occasione per sederci con Corucci (safety di livello internazionale e membro delle commissioni Safety ed Education di Aida) che ha contribuito a sviluppare questa iniziativa
Gabriela Felicioni
Per iniziare, raccontaci qualcosa su di te e della tua attività apneistica.
«Sono pisano di nascita e livornese d’adozione (con buona pace dei campanilisti, sorride). Ho iniziato a fare apnea ormai più di 10 anni fa e mi interesso di sicurezza dal 2019. In quella che ormai ha il sapore di una vita passata, sono stato un ingegnere informatico e ricercatore universitario (mi occupavo di biorobotica e intelligenza artificiale). Dal 2022, tuttavia, ho deciso di mettere nel cassetto la carriera tecnica e accademica per dedicarmi full time alla mia più grande passione, l’apnea appunto. Devo molto a questa disciplina: mi ha cambiato come persona e in un periodo difficile della mia vita ha rappresentato una via di rinascita e guarigione.
«La mia base operativa è Livorno, dove nel 2020 ho fondato Deep Instinct Feediving. Sono Instructor Trainer, istruttore di primo soccorso e dal 2022 lavoro con Aida International all’interno della commissione safety e di quella education: ciò mi permette di contribuire attivamente allo sviluppo di iniziative, contenuti e protocolli che hanno una diffusione su scala globale. Dal 2021 a oggi ho avuto modo di lavorare ai massimi livelli della sicurezza in apnea, partecipando in veste di safety e safety team leader a tutte le principali competizioni internazionali (Vertical Blue e a svariati Campionati del mondo, sia nel circuito Aida che in quello Cmas)».
Cosa ti ha portato a interessarti di sicurezza?
«Era la stagione 2018-2019. Il gruppo con cui mi allenavo all’epoca non era molto attivo d’estate, così con alcuni amici apneisti comprammo un atollo e iniziammo a uscire in mare in autonomia. Non ero ancora istruttore (nessuno di noi lo era). L’ambiente era disteso, le sessioni al tramonto dopo il lavoro un piacevole rituale. Ci divertivamo, tuffavamo sui 40, 45 metri (la profondità massima che riuscivamo a trovare), con tempi di immersione anche piuttosto lunghi. Ben presto, tuttavia, iniziò a farsi strada nella mia testa un tarlo per quanto riguarda la sicurezza: se ci fosse stato un imprevisto, saremmo stati pronti a fronteggiarlo con quel che avevamo appreso nei nostri corsi? Nella mia testa la risposta iniziò ad assumere i contorni definiti di un “no”. Più tuffavamo e più cresceva la sensazione che non fossimo preparati, che ci mancasse qualcosa sia a livello di conoscenze tecniche sia a livello di mindset. Attorno a noi la situazione non sembrava più rosea: nel nostro percorso come allievi ci era stato insegnato poco rispetto ai rischi e ai protocolli di salvataggio e sicurezza, e l’approccio alla gestione del rischio assomigliava più ad un mix di ansie, insicurezze e terrorismo psicologico sull’allievo.
«Allora iniziai a documentarmi. Ben presto sulla nostra boa autogestita comparve un lanyard (non lo avevamo mai visto usare fino ad allora), poi il primo stopper in fondo al cavo (in quel periodo, partecipando come allievo a uno stage, mi era capitato di ritrovarmi impigliato oltre i 40 metri per un cavo allestito male, situazione che fortunatamente si è risolta senza ripercussioni), e così via. Nonostante i cavi allestiti via via in modo più professionale e le uscite strutturate in maniera più rigorosa, sentivo che continuava a mancare qualcosa. Fu a quel punto che mi imbattei nella locandina del primo corso PSF (Professional Safety Freediver, il seme da cui è partita questa iniziativa) tenuto dall’amico Marco Cosentino, a Y-40. Non ero mai stato attratto dal mondo delle competizioni e non avevo la più pallida idea di che cosa significasse fare il safety. Tuttavia, mi sembrava il posto giusto dove imparare ciò che mi interessava, così partecipai. Fu un corso tanto bello quanto tosto, con requisiti qualitativi che si sono rivelati non facili da mantenere in seguito, a causa di una certa difficoltà nel reclutare gruppi di candidati al livello atteso. Nel corso trovai le competenze tecniche di cui sentivo il bisogno e, forse più importante, sentii distintamente quel “click” che avevo immaginato a livello di mindset. Realizzai che fare il safety era un lavoro davvero duro, su tutti i versanti: fisico, tecnico ed emotivo. Sentii però che poteva essere nelle mie corde, così iniziai a pensare di propormi per qualche gara vera. A distanza di qualche anno, ho avuto l’occasione di mettermi alla prova sul campo in tutte le competizioni più importanti, trovandomi a fronteggiare situazioni che mi hanno fatto crescere tantissimo come safety, come apneista e come istruttore. Recentemente, ho avuto l’onore di aiutare Aida International a recepire, ampliare e standardizzare l’iniziativa PSF… ed eccoci qua».
Parlaci di questo ultimo corso safety.
Il corso rientra in un’iniziativa chiamata AIDA Competition Safety Freediver by Vertical Blue - Professional Safety Freediver. Si tratta di una collaborazione tra Aida International e Vertical Blue, in cui il programma PSF è stato riveduto, standardizzato e per certi versi ampliato, in modo da poter scalare a livello globale. L’iniziativa nel complesso prevede tre diversi corsi, che coprono sia la sicurezza nelle discipline indoor che in quelle outdoor. Per quanto riguarda le discipline profonde, è previsto un livello base (che abilita a fare safety in gare con annunci massimi pari a 80 metri) e uno avanzato (per gare con annunci illimitati). Per i livelli più avanzati di questi corsi è prevista una formazione specifica per gli istruttori: al momento siamo solo in tre, in tutto il mondo, a essere stati insigniti del ruolo di safety instructor trainer da Aida, in base all’esperienza sul campo e al contributo fornito allo sviluppo di questa iniziativa. È altresì previsto un sistema di punti utile a quantificare in maniera oggettiva l’esperienza maturata sul campo da ciascun safety.
«Tornando al corso, direi che è andato molto bene e i ragazzi sono rimasti soddisfatti. È stato serrato, ma siamo riusciti a fare tutto quello che dovevamo, simulando tra l’altro una vasta gamma di interventi e casi realistici (l’esperienza sul campo aiuta tanto in tal senso). Stimolante e degna di nota la partecipazione di un apneista diversamente abile (Bruno Mannone), con il quale abbiamo lavorato nell’ottica di adeguare i protocolli di salvataggio anche a fronte di situazioni e abilità non convenzionali. Direi che ci siamo riusciti e non mancherò di discutere quanto abbiamo appreso all’interno delle commissioni con cui lavoro, in modo che possa essere utile ad altri»
È un corso indicato solo per chi intende fare il safety alle gare?
«Niente affatto. Per quello che è lo stato attuale delle didattiche trovo che sia un corso utilissimo per qualsiasi apneista, e in particolare per gli istruttori. Di sicurezza si parla tanto nel mondo dell’apnea, ma all’atto pratico la situazione che riscontro - anche in ambito ricreativo - non è tanto lusinghiera. Con la diffusione sempre maggiore del nostro sport, stanno salendo anche le prestazioni di allievi e praticanti, e con questo gli incidenti. Saper reagire prontamente è fondamentale, e l’addestramento standard, in molti casi, non si rivela sufficiente».
Quali caratteristiche deve avere un buon safety?
«Per fare il safety occorrono grande solidità fisica e mentale, per tollerare una routine che in molti casi prevede sveglia alle cinque di mattina e fino a 5, 6 ore in acqua per due o tre settimane, con tuffi ripetuti, freddo, onde, corrente, incidenti, stress e quant’altro. Un taglietto o una sciupatura al piede diventano facilmente problemi seri, perché è impossibile guarire continuando a scendere in mare ogni giorno. Gli infortuni sono all’ordine del giorno, e le situazioni che ci troviamo talvolta a fronteggiare di grande impatto anche dal punto di vista emotivo. Bisogna sapersi prendere cura di sé stessi, oltre che degli atleti. Le priorità durante una gara diventano essenziali: mangiare, bere, dormire, curarsi, tenere a bada i nervi. Occorre avere sangue freddo e la capacità di rimanere lucidi, precisi e distaccati anche in situazioni di grande stress e stanchezza. Bisogna essere affidabili e ripetibili nei tuffi: un buon safety non manca una compensazione in centinaia di tuffi, ed è molto importante (anche a livello psicologico, per gli atleti) che ci facciamo trovare al posto giusto al momento giusto, anche quando il tuffo non va secondo i piani. Oltre alla precisione, occorre avere un gran margine alle nostre quote operative (di base i primi 30, 40 metri, ma capita talvolta di dover tuffare anche più profondi). Riportare in superficie un atleta è infatti molto faticoso e talvolta capita di doverlo fare svariate volte nel corso di una giornata, magari dopo attese in profondità di 20 o 30 secondi.
«In più, il safety deve avere una dote che spicca sopra a tutte le altre: una consapevolezza apneistica impeccabile. Capire il perché è semplice: non c’è sicurezza per chi fa sicurezza. Per quanto estreme possano essere le sue prestazioni, in definitiva un atleta è sempre assicurato al cavo guida mediante il lanyard e può essere riportato in superficie attivando un sistema di contrappeso se i safety non dovessero riuscire ad aiutarlo (il che è piuttosto raro). Il safety, invece, tuffa completamente libero, il suo lavoro è faticoso e la sua attenzione proiettata sull’atleta: vi lascio immaginare le potenziali conseguenze per lui di un problema in profondità durante un salvataggio impegnativo. Per questo non si può sbagliare o commettere leggerezze. Ultimo, ma non per importanza, è fondamentale avere uno spiccato spirito collaborativo e di gruppo, buone doti empatiche e comunicative e la capacità di creare un’atmosfera accogliente, distesa e rassicurante per gli atleti. Anche perché un atleta tranquillo e che si sente al sicuro più difficilmente commette errori»
E dal punto di vista più mentale?
«Occorre un tipo di concentrazione davvero particolare: un equilibrio sottile tra il rilassamento necessario per tuffare profondi in economia (risparmiando energie fisiche e mentali che potrebbero servire in caso di intervento) e l’attenzione vigile e la reattività necessarie per intervenire prontamente in una situazione di emergenza. Se consideriamo poi le moltissime ore in acqua e la stanchezza, si capisce come il cervello finisca per filtrare tutto ciò che è superfluo e concentrarsi sulle cose davvero essenziali. Spesso mi ritrovo a ripetermele in testa come un mantra, per essere sicuro di rimanere concentrato anche a fronte di stanchezza e ripetitività».
Come vengono selezionati i safety per una gara?
«Tradizionalmente è un sistema basato sulla fiducia, per questo talvolta non è semplice entrare nel giro. Nel selezionare i membri di un team nessun brevetto pesa quanto l’essersi guardati le spalle a vicenda in passato e aver condiviso esperienze di una certa intensità. È importante anche l’inclusività (oppure si rischia, come capita, che i safety alle gare più importanti siano sempre un po’ gli stessi). Negli ultimi anni Aida ha organizzato dei concorsi aperti a tutti, in cui venivano valutate abilità, competenze ed esperienze pregresse dei candidati, nell’ottica di selezionare un team che offrisse un buon bilanciamento tra i profili senior (le colonne portanti del team) e quelli junior (safety formati ma con minor esperienza). Il nuovo sistema di certificazioni e punti esperienze dovrebbe ulteriormente agevolarci nel selezionare persone valide alle prossime gare. Da notare che prossimamente questi brevetti diventeranno obbligatori per potersi candidare».
Quest’anno ti vedremo di nuovo in azione?
«Sicuramente sarò coinvolto nell’organizzazione del mondiale Aida, che si terrà a Cipro. Per quanto riguarda l’impegno effettivo in acqua, per quest’anno sto ancora facendo delle valutazioni. Tengo molto a questa parte della mia attività e negli ultimi anni ho sempre preso parte ad almeno una gara importante a stagione. Partecipare a questi eventi, però, è molto faticoso e dispendioso in termini di tempo. Il più delle volte i Mondiali si svolgono a cavallo tra la fine della stagione e l’inizio della successiva, togliendo di fatto una preziosa possibilità di riposo e di recupero a chi, come me, gestisce una scuola. Non nascondo che l’idea di prendermi un anno di pausa sarebbe allettante anche nell’ottica di dedicare un po’ di tempo a coltivarmi come atleta, dopo tanto tempo in cui la mia apnea è stata focalizzata quasi esclusivamente sugli altri. C’è qualche sogno nel cassetto ancora. Vedremo. Inoltre, questo è un anno un po’ particolare per me: a febbraio scorso è nato mio figlio Noah e vorrei riuscire a ritagliare del tempo per la famiglia, magari organizzare un viaggio con lui e la mia compagna Stefania. Insomma, non sarà facile conciliare tutto».
Prossime iniziative?
«Con ogni probabilità organizzerò un nuovo corso safety il prossimo autunno/inverno. Sono comunque disponibile tutto l’anno a Livorno oppure a Y-40 per percorsi dedicati o richieste da parte di gruppi e associazioni»
Box Il team dei safety
Francesca Pugliarello, Davide Baruzzi, Sergio Masetto, Giovanni Nardinocchi, Lorenzo Bassi Luciani, Bruno Mannone, Mattia Abbati, Fert Sessa, Gabriela Felicioni, Massimiliano Buzzi, Bruno Martignago, Alessandro Cuccunato.
Credits: Daan Verhoeven/Deep Instinct Freediving