In giro per l'Italia alla ricerca di spot ove, se si creasse l'occasione, poter scendere comodamente in acqua per una fugace pescata (in barba a famiglia, lavoro e altri impegni “sociali”...)
Alberto Martignani
Sarà capitato a molti di noi, viaggiando lungo la nostra Penisola, per lavoro, diletto o motivi famigliari, di trovarci in un bel posto di mare, con il rimpianto, magari, di non avere con noi l’attrezzatura e non poterci pertanto ritagliare quel paio d’ore in acqua sufficienti a condire la giornata con una spruzzata di salsedine!
Avremo magari valutato, prima di partire, che non ne valesse la pena: non è certo facile, lungo coste sfruttate come le nostre, improvvisare un’uscita con qualche speranza di successo senza una conoscenza approfondita del posto.
Magari poi, una volta a destinazione, ci saremo pentiti, ragionando sul fatto che, indipendentemente dal carniere che avremmo potuto realizzare, un’occhiata sotto la superficie l’avremmo data volentieri. Questo tarlo ci accompagnerà lungo il resto del viaggio, condendolo di un retrogusto amarognolo. E’ il motivo per cui, quando mi sposto, per qualsiasi motivo, verso zone di mare, porto sempre con me l’attrezzatura, magari ridotta all’osso.
Questo breve ciclo di articoli vuole essere un suggerimento per scegliere, e possibilmente sfruttare al meglio, un posto dove scendere al volo, da terra, e ritagliarsi un paio d’ore di relax, a caccia di qualche pesce.
Chia
Siamo nel sud-ovest della Sardegna. Ci capitai a maggio di qualche anno fa in occasione di un congresso medico. Nonostante la brevità del soggiorno e le difficoltà logistiche legate al viaggio in aereo, mi ero portato la sacca con muta da 5, arbalete da 94 e quanto necessario nella speranza che i lavori congressuali mi lasciassero il tempo per un tuffo nel mare limpido della Sardegna.
Al termine della prima giornata di lavori ero sceso a piedi dal Resort Chia Laguna, di cui ero ospite, alla spiaggia. Siccome la zona si presentava prevalentemente sabbiosa e apparentemente poco interessante, non mi ero portato il fucile, ma solo pinne, maschera, giacca della muta e qualche chilo di zavorra per una semplice esplorazione. Me ne sarei pentito in quanto, sceso in acqua attorno alla piccola propaggine rocciosa di Punta Chia, che interrompe l’omonima spiaggia, avevo scoperto come, non solo essa proseguisse sott’acqua con una franata piuttosto estesa di sassi e massoni, ma come quel giorno fosse anche terreno di pascolo di grossi barracuda, estremamente tranquilli. Alcuni erano addirittura adagiati sulla posidonia della quale, per un fenomeno di fotocromatismo, avevano assunto la tonalità verde. Me ne ricordo uno al quale arrivai vicinissimo, quasi da poterlo toccare con la mano.
Raggiunta l’estremità della punta notai che proseguiva sott’acqua per un ulteriore centinaio di metri, con lastre di roccia distribuite sulla sabbia: un posto certo non estesissimo ma più che sufficiente a consentire un’uscita di un paio d’ ore. La batimetrica, peraltro, non superava mai i 5 o 6 metri.
A quel punto, seppelliti i piombi in un punto riconoscibile per non doverli ritrasportare, ero tornato la mattina dopo molto presto, armato di fucile.
A quell’ora la navetta di servizio dal resort non era in funzione e bisognava pertanto percorrere a piedi una distanza di circa un chilometro e mezzo. Ovviamente, chi abbia a disposizione un’auto privata, può raggiungere facilmente la spiaggia.
Mi ero immerso alla sinistra della punta, in modo da esplorarla procedendo in senso orario e mantenendo il sole quasi sempre alle spalle. Il mare, come speravo, si era mantenuto leggermente mosso, come il pomeriggio prima, ma dovetti ben presto constatare come i barracuda fossero spariti. Proseguii con una serie di aspetti nel bassofondo circostante, selezionando quanto meglio potevo ripari e appostamenti.
Di barracuda ne vidi passare solo uno, lontano e del tutto disinteressato, ma ben presto mi resi conto come quel bel bassofondo presentasse altri abitanti: dapprima un polpo, che raccolsi, poi una spigoletta e un’altra ancora un po’ più grande.
Giunto in corrispondenza dell’apice, iniziai ad allargarmi dove le lingue di roccia lasciavano spazio a chiazze sempre più estese di sabbia. C’erano branchi di mormore che grufolavano poi, all’improvviso, i pesci vennero sopravanzati da una grossa spigola: era bianchissima (si mimetizzava sulla sabbia…) e rappresentò la più facile delle catture.
Pensai che la presenza di quelle spigole fosse da correlarsi con gli stagni di acqua dolce comunicanti con il mare che caratterizzano il litorale a destra della punta. Raggiunta la zona ove le concrezioni di roccia cedevano definitivamente il posto alla sabbia, ritrovai le mormore e, senza ulteriori indugi, premetti il grilletto. Me ne pentii subito perché, quasi contemporaneamente, un enorme pesce argentato irruppe sul campo, transitando per qualche decimo di secondo davanti alla mia arma scarica, prima di dileguarsi velocemente. Era una leccia di forse 20 chili, attirata dalle vibrazioni della mormora ferita.
Completato il periplo della punta senza ulteriori avvistamenti di rilievo, riguadagnai la spiaggia e potei fare comodamente ritorno al resort utilizzando la navetta che, dalle 8 del mattino, risultava di nuovo operativa...
Non sono più tornato a Chia e immagino che solo in condizioni particolari sia possibile incontravi tutto il pesce che ho visto io, però mi sembrò un ottimo spot, sicuramente da consigliare a chi si trovi a passare da quelle parti.
Marotta
Pur essendo un frequentatore assiduo dei fondali alto-adriatici, le scogliere di Marotta, tra Fano e Senigallia, non rientrano tra i miei itinerari abituali, in quanto un po’ troppo distanti da Bologna. Ci sono stato non più di 3 o 4 volte, ma qualcosa vi ho sempre visto e preso. Come quasi tutti gli spot da queste parti, prevalentemente costituiti da barriere artificiali a protezione degli arenili, è frequentabile solo fuori stagione, quando non sono operative le limitazioni imposte dalle Ordinanze balneari.
Emblematica è l’uscita effettuata alcuni anni fa. Assieme a un amico di Reggio Emilia, anche lui accanito pescasub, avevamo deciso di portare le nostre mogli a visitare quel litorale, in particolare la città di Fano, contrabbandando (è ovvio) l’attrezzatura con la promessa che saremmo restati in acqua non più di un’ora, un’ora e mezza al massimo… Era metà novembre, periodo ottimo per le spigole, e la temperatura dell’acqua sui 12 gradi faceva ben speaare!
Immergersi al di fuori della stagione balneare è semplicissimo: basta lasciare l’auto in un punto qualsiasi del lungomare, cambiarsi, attraversare la spiaggia e buttarsi, raggiungendo quindi a pinne le barriere frangiflutto, collocate a circa 200 metri da riva. Occorre un fucile molto corto (vanno bene uno pneumatico da 50 con fiocina oppure un arbalete da 60 o 75 con tahitiana leggera); ovviamente, il presupposto per poter scendere in acqua è che il mare sia calmo o appena increspato, e non vi siano state piogge torrenziali o mareggiate nei giorni precedenti, tutte condizioni che annullerebbero la visibilità.
Si pesca sempre in poca acqua (tranne che in alcuni punti…) e la tecnica d’elezione è quella di scivolare alla base della franata di massi artificiali sino a trovare un buon punto per portare l’aspetto alle prede tipiche della zona. Le più comuni sono spigole, cefali, mormore, serra e seppie. Il periodo migliore per queste ultime è la primavera (in particolare il mese di aprile in cui approcciano in massa il litorale per riprodursi). L’autunno è invece la stagione d’elezione per i grossi cefali di passo, che invadono sovente il bassofondo con veri e propri fiumi argentati, dietro i quali possono comparire i serra, meno frequentemente le lecce e, negli ultimi anni, anche i tonni. Le spigole ci sono sempre, ma novembre è probabilmente il mese migliore, quello in cui cominciano a cibarsi freneticamente e a raggrupparsi in preparazione alla frega, che si completa generalmente prima che l’acqua si raffreddi eccessivamente (da queste parti, in inverno, la temperatura scende tranquillamente sino a 5 gradi).
Anche la ricerca in tana può dare buoni frutti. Anni fa sorpresi in una profonda spaccatura due grosse corvine. Ne centrai una che purtroppo si strappò…
Tornando all’uscita in questione, avevo fatto in modo di scendere in corrispondenza del tratto più meridionale della lunga trafila di barriere frangiflutto che contraddistinguono il litorale di Marotta in quanto, da precedenti esperienze, mi era sembrato il migliore. Proprio in questa zona, infatti, al confine tra i territori di Marotta e Senigallia, vi è lo sbocco del torrente Cesano e l’acqua dolce che si immette in mare, se può, in alcune circostanze, peggiorare la visibilità, d’altro canto attira come un magnete spigole e cefali. Inoltr,e vi sono un paio di “pass” parecchio profonde e con il fondo a soffolta, sicuramente il massimo per le spigole che, da queste parti, hanno gusti difficili e non si fanno trovare dappertutto, bensì solo in ben selezionate zonette. Senza contare che il fondo (in alcuni punti e con alta marea può arrivare sino a 7, 8 metri) è tale da attirare specie inconsuete vicino a riva, come le ombrine (un amico ne ha prese diverse nel punto più profondo) e addirittura da trattenere le spigole anche in pieno inverno allorché, a causa del raffreddamento estremo del basso fondale, queste tendono a migrare più in profondità.
Per farla breve, fu proprio in prossimità di uno di questi punti che riuscii a intercettare l’unica bella spigola avvistata nel corso della breve uscita e a catturarla.
Brindisi
E’ evidente come, lungo tutta la bellissima costa pugliese, trovare una zona dove scendere in acqua non sia certo un problema. Questa di Brindisi, tuttavia, è particolarissima e la ricordo con piacere a causa di una cattura prestigiosa e piuttosto inconsueta, trattandosi di uno spot “artificiale”. Sto parlando infatti del lunghissimo antemurale a protezione del grande porto del capoluogo salentino, detta anche diga di Punta Riso.
Un posto noto e battuto ma talmente esteso che la possibilità di incappare in qualche bel pesce esiste sempre. Inoltre, l’intrico dei tetrapodi sovrapposti crea un labirinto di tane all’interno delle quali le prede trovano un rifugio sicuro e stazionano volentieri.
Per raggiungerlo, è possibile seguire le indicazioni per l’aeroporto, che è vicinissimo e poi proseguire per pochi chilometri in direzione del porto sino a imboccare la stradina tracciata sopra la diga. Oltrepassata la marina turistica, che terremo alla nostra destra, si arriva alla cosiddetta Isola di Sant’Andrea e al vecchio e diroccato faro di Punta Riso.
Qualche decina di metri passato il faro inizia la barriera di tetrapodi, mentre la stradina risulta chiusa da una cancellata che blocca l’accesso ai mezzi non autorizzati (consentito, da questo punto in poi, il solo transito pedonale). Non serve andare oltre, anche perché scalare i tetrapodi in discesa per entrare in acqua risulterebbe complicato e pericoloso.
Si parcheggia a lato della stradina e, completata la vestizione, si scavalca un piccolo parapetto in cemento e si entra in acqua in una zona di roccia naturale. Il fondale è bassissimo e bisogna pinneggiare per almeno 300 metri verso destra prima di trovare qualche metro alla base dei tetrapodi. Da qui in poi avremo quasi un chilometro di diga pescabile. A un certo punto, infatti, i tetrapodi
s’interrompono e la barriera prosegue sotto forma di un muro liscio di cemento, totalmente inadatta a trattenere il pesce.
Sono capitato in questo posto la domenica di Pasqua di qualche anno fa, durante un viaggio in Puglia a trovare dei cari amici. Anche in questa circostanza la pescata ebbe una durata inferiore alle due ore, mentre mia moglie restava ad aspettarmi in automobile, dal momento che pioveva e faceva piuttosto freddo. Gli amici del posto che mi avevano consigliato di buttarmi qui, mi avevano avvertito di evitare di addentrarmi nelle ampie concamerazioni tra i tetrapodi, invitanti ma pericolose per il rischio di perdervi l’orientamento. Monito giustissimo, anche se superfluo dal momento che sono posti che frequento abitualmente anche dalle mie parti e di cui conosco benissimo le insidie.
Nel caso di Brindisi, poi, uscendo qualche metro al largo della diga stessa,
s’incontra il grotto tipico di queste zone, su cui condurre aspetti a profondità non superiori ai 12, 13 metri.
Come ho detto, la giornata era umida e ventosa, sferzata da un vento di scirocco e da improvvisi scrosci di pioggia, ma il ridosso rappresentato dall’imponente manufatto consentiva di pescare in assenza di onde e corrente.
La temperatura dell’acqua era sui 15 gradi e la trasparenza proprio quella giusta, con quella tenue velatura che poteva indurre le potenziali prede a serrare maggiormente le distanze. Avevo scelto di trascurare il grotto e di effettuare, invece, una serie di tuffi alla base dei tetrapodi, in 9, 10 metri di fondo, esplorando le ampie tane presenti, ma non trascurando di portare anche qualche aspetto rivolto verso il largo.
Ed è proprio da questa parte che a un certo punto, di poco sollevata rispetto al terreno sabbioso, era comparsa l’ombra vaga di un testone in avvicinamento. Troppo massiccio per essere quello di una spigola! Era un bellissimo dentice, seguito da altri 2 o 3…
Impugnavo un doppio elastico in carbonio da 99 centimetri, ma avevo caricato gli elastici alle prime tacche, nella prospettiva di effettuare qualche tiro in tana. Sarebbero risultati sufficienti a trafiggere quel grosso pesce? Fui fortunato perché il dentice arrivò deciso e molto vicino.
Scoccai il tiro nel momento stesso in cui accennò a girarsi, colpendolo dietro l’opercolo; la punta fuoriuscì quel tanto che basta da consentire l’apertura delle due alette. Lo lasciai brevemente sfogare, ben staccato dal fondo, e lo recuperai senza problemi dalla superficie.
La cattura mi sorprese solo in parte in quanto le entrate primaverili di questi predoni, in Salento, sono normali. Accade allorché la temperatura dell’acqua sale oltre i 14, 15 gradi. Basta poco, 2-3 giorni di sole, o di vento africano, a far crescere di quel fatidico grado capace di innescare il montone dei dentici, che risalgono per riprodursi verso i fondali di coralligeno e di roccia madre, a batimetriche anche inferiori ai 10 metri.
Il fenomeno era ovviamente molto più appariscente 15, 20 anni fa, prima che il prelievo professionale e il bracconaggio per fini di lucro riducessero drasticamente lo stock dei dentici salentini. Tuttavia, anche se in misura minore e con esemplari di taglia inferiore, qualcuno in basso fondo, tra marzo e aprile, lo si cattura sempre.
A riprova di ciò, proseguendo le planate lente, alla base della diga, e indugiando negli aspetti, dopo neanche mezz’ora un altro discreto dentice, questa volta isolato, era comparso a sinistra, purtroppo sul mio lato scoperto. Stava vagando tra i tetrapodi, probabilmente in caccia, ma mi aveva visto, restando lontano e, infine, allontanandosi.
Avevo terminato la giornata con la cattura di un pizzuto per poi risalire, poco prima del tramonto, da quel posto magico, che sembrava impossibile potesse trovarsi solo poche centinaia di metri al largo di una grande città portuale.