A rompere la monotonia del terreno, sui 25 metri, alcuni sassi isolati e blocchi di cemento che danno rifugio a cernie bianche e anche a qualche bruna. Un fondale non bello, con la visibilità spesso precaria, dove però le catture non mancano!
Stefano Tovaglieri
Per gli amici Totò, è tra i pescatori siciliani più conosciuti. Agonista irrinunciabile, presente al massimo Campionato italiano da anni, ama il mare sopra ogni cosa. Proprio questo amore sviscerato lo spinge tutto l’anno a dare sfogo al suo istinto venatorio. Per Totò immergersi a caccia di belle catture è molto di più di uno sport: è vivere una filosofia di vita che affonda le sue radici in valori semplici, come il benessere psicofisico e quel senso di libertà che sono propri del Dna degli uomini di mare.
“Pelagos amo quod patriam liberorum est”, ovvero “amo il Mare perché è la patria degli uomini liberi”, così recita un’antica iscrizione, attribuita a Virgilio, che sovrastava l’entrata dei circoli navali di quei tempi e che esprime il sentire di Totò, come di molti altri appassionati che ho avuto modo di incontrare nei miei viaggi in Mediterraneo.
Affabile con tutti, sempre sorridente e, soprattutto, disponibile a trovare sempre il lato positivo in ogni situazione, sa accettare con ironia anche le giornate più storte. Ma c’è un aspetto della sua persona che colpisce: l fisicità. A differenza di tanti altri suoi colleghi, che sono strutturalmente magri, asciutti, con una muscolatura “sotto tono”, Salvatore si presenta estremamente tonico, soprattutto negli arti inferiori. Non un dettaglio ma un aspetto, questo, che evidenzia tutta la sua attenzione alla preparazione fisica necessaria a supportare l’allenamento specifico in mare e in piscina per contrastare l’azione catabolica dell’apnea in profondità che, in poco tempo, lo porterebbe alla perdita di massa magra e, quindi, di muscoli, forza e resistenza.
La scorsa estate ho avuto il piacere di seguirlo in un paio di uscite nel Golfo di Castellamare e nel mare di San Nicola e Trabia, tra Palermo e Termini Imerese. Un mare che Totò conosce come le sue tasche.
Quel giorno avevamo appuntamento con Totò di buon mattino, all’uscita dell’autostrada Palermo-Mazzara, in direzione Trappeto. Sarebbe stata la prima pescata nel mare di Terrasini. Con me c’era Leonardo Guida, un amico ed esperto conoscitore di quella parte di mare della Sicilia.
Dopo aver alato il gommone eravamo in navigazione dentro il golfo. Sul Gps molti punti segnati. Cominciamo con alcuni tuffi sul medio fondale. Si trattava di sassi sparsi sul fango; ripari ideali per le cernie bianche.
In acqua c’eravamo io e Totò, mentre Leo faceva da barcaiolo. Giusto qualche sommozzata per rompere il fiato e risalivamo sul gommone. Sotto, il deserto. Pochi minuti di navigazione verso il largo e ci riprovavamo su un altro spot simile, per conformazione, al precedente, ma molto più importante per estensione dei massi e dei blocchi di cemento.
Parto, l’acqua è limpida. A pochi metri dal fondo, di circa 25 metri, intravvedo una cernia bianca tagliarmi la strada per infilarsi nel buco del blocco di cemento che si staglia dal terreno proprio sotto le pinne. Tenendo d’occhio la posizione del nascondiglio procedo in caduta preparandomi con la lampada nella mano sinistra e l’arbalete nella destra.
Sul fondo una fanghiglia leggerissima; un limo che al minimo movimento si solleva, intorbidendo tutto. Atterrato davanti al blocco, punto la torcia nel buco. La cernia è immobile in fondo a quel piccolo tunnel. Infilo il fucile, tento in qualche modo di allinearlo nonostante uno spezzone di rete da pesca che mi limita nei movimenti, e scocco il tiro.
Niente da fare! Il pesce mi sfila davanti come un fulmine. Lo seguo con lo sguardo e, a distanza, lo vedo appoggiarsi sul fango. La mia apnea è ormai al limite e così risalgo portandomi dietro l’arbalete vuoto. Riemerso, nemmeno il tempo di fare due respiri e dovevo rispondere alla domanda del mio compagno: «L’hai sbagliata?». «Purtroppo, si!», rispondo. Poi proseguo con entusiasmo a mille: «Si tratta di un pesce che stimo di oltre cinque chili. Quando l’ho mancata si è messa sul fango distante dai blocchi». Giusto un cenno con la testa ed eccolo immergersi.
Con lo sguardo lo seguo finché sparisce nel torbido che avevo lasciato nel passaggio precedente. Pochi attimi ed eccolo risalire con infilzato sull’asta il primo pesce della giornata. Bella cattura!
«Ok! - dice Salvatore -, ne ho vista un’altra, ma per ora la lasciamo stare. Magari ci torniamo più tardi». Avviato il gommone, Totò sceglie sul Gps un altro spot. È poco distante. «Si tratta - spiega - di un agglomerato di blocchi con i ferri che spuntano dappertutto. Bisogna stare attenti!».
Raggiungiamo il punto in una manciata di secondi e li comincia una nuova avventura. In mare ci saremo ancora io e Totò. Con me la telecamera per riprendere quello che potrete vedere nel mio canale YouTube: www.youtube.com/watch?v=syWLBHC06Vk
Leonardo si sacrificherà ancora una volta a fare da barcaiolo. Questa volta è Totò a scendere per primo. L’acqua è più limpida e così decido di sommozzare qualche metro per seguire l’azione di caccia, con l’intento di carpire qualche segreto della sua azione. Il modo in cui Totò si muove all’agguato è una poesia. Fluido e silenzioso, scivola tutt’intorno e quelle pietre come fosse uno di loro.
Poi si blocca, allunga l’arma che impugna e scocca il tiro. Vedo il pesce dimenarsi con tutte le sue forze e poi intanarsi tra due lastre. L’amico non molla e cerca di estrarlo dalla tana strattonandolo dal cordino della freccia mentre risaliva, ma niente.
Giunto in superficie chiamava Leo che, poco distante, ci raggiungeva per darci supporto. «Ho bisogno il palloncino per metterlo in trazione», gli urlava. È proprio in queste manovre che emergono le tante ore trascorse in mare, tutta l’esperienza maturata in tanti anni di pesca.
Poi, messo in trazione il filo si rivolge a me e dice: «Scendi Stefano e vedi cosa puoi fare per stanarla». Che emozione! M’immergevo seguendo il filo e mi ritrovavo davanti a una fessura formata da due lastre di cemento. Dentro c’era solo acqua torbida. Anche illuminando con la torcia, del pesce non vedevo traccia. Notavo soltanto il monofilo che finiva nel buio dello spacco.
Riemerso, racconto a Totò la scena e lui mi risponde: «Lasciamo che l’acqua si pulisca, evitiamo per qualche minuto di far agitare il pesce». Così, decidiamo di effettuare qualche tuffo sul lato di ponente dell’agglomerato per cercare qualche altra possibile preda, ma niente! Dopo circa una ventina di minuti, non avendo incrociato nella di interessante pinnuto, decidiamo di tornare sulla cernia sparata. È Totò che ci riprova per primo, però senza successo. Poi è il mio turno. L’amico si raccomanda di stare attento a tutti quei ferri.
Raggiunto il punto a 25 metri, questa volta posso vedere la preda, accendendo la lampada, dentro lo spacco. È immobile. L’asta l’attraversa dall’alto al basso, poco dietro la testa. Non è distante e così infilo tutto il braccio per tentare di tirarla fuori. Come afferro l’asta, però, la cernia comincia a dibattersi in modo forsennato. Capisco che se avessi mollato in quel momento avremmo dovuto rifare tutto daccapo. Così, giocando sulla forza del mio braccio e sullo spostamento suggerito dal percorso d’uscita che avevo intravvisto prima di afferrare l’asta, quando l’acqua era ancora pulita là dentro, riesco a toglierla dalla tana e a portarla in superficie. Ancora adesso non so raccontare quell’emozione. Avevo stanato un bel pesce sparato dal mitico Totò Natoli! Io, “U milanese”!
Era un’altra cernia bianca, un po’ più grande della precedente. Issata la preda in barca risalivamo pure noi per trasferirci in un altro spot. Questa volta la navigazione era decisamente più lunga.
Giunti sul punto potevamo vedere bene Punta Raisi e l’aeroporto Falcone e Borsellino. Sotto la superficie, una distesa di grotto tra i 28 e i 35 metri di profondità. Sull’ecoscandaglio si distinguevano nuvole di mangianza; davvero interessante. Questa volta, però, Totò decideva di ancorare in gommone e di immergerci tutti e tre assieme.
Una volta in acqua restavamo a vista per gestire la sicurezza. Ci alternavamo sempre uno giù e due su. In questo modo avevamo tempi di recupero più lunghi per prevenire il taravana.
Il fondale era davvero bello, ricchissimo di coralligeno. C’erano mille buchi in cui sfilavano come missili saraghi e, a volte, anche corvine. Non era facile portarli a tiro. Avevo già sommozzato ben tre volte, e così i miei compagni, e mentre attendevo il mio turno avevo perso di vista per un attimo l’azione di Totò, assistito in quel momento da Leo. Ero totalmente assorbito dall’incanto di quella limpidezza che ci permetteva di scrutare il fondo dalla superficie. Niente a che vedere con l’acqua degli spot precedenti. Poi, una risata compiaciuta e, voltandomi, Totò in superficie che stava sfilando dalla taitiana una bella corvina.
Toccava a me. Non avevo ben chiaro come comportarmi. Tana o agguato? Un attimo di indecisione e subito dopo mi rivolgevo a Totò per un consulto. «Poco prima di arrivare sul fondo lasciati trasportare dalla corrente - mi diceva -, vai a corrente e spianati per non farti vedere, ma fai attenzione agli spacchi e ai buchi che ti sfileranno sotto. Stai in guardia e tieni in avanti l’arbalete».
Già con quelle poche parole mi immaginavo cosa avrei fatto. Seguendo alla lettera il suggerimento di Totò, mi lasciavo portare dalla corrente e, in prossimità del terreno, al terzo buco, ecco una cerniotta bruna; un pesce sui tre chili. Accesa la lampada ispezionavo bene lo spacco, ma niente. Deluso e arrabbiato per quell’ennesima cilecca, sfogavo il mio disappunto appena rienerso.
Leo ci provava pure lui, però niente. Era la volta di Totò, che decideva di abbandonare quello spot per spostarsi una cinquantina di metri a ponente. Qualche minuto per prepararsi al tuffo e giù, a caccia di un’altra cattura. Nemmeno a dirlo, risaliva poco dopo con il fucile che svolgeva metri di sagola. Aveva sparato ancora!
Riemerso, reclamava il raffio per estrarre una cernia bruna. Cosa che avveniva al tuffo successivo. Insomma, avevo sotto gli occhi la differenza tra chi va in mare tutte le stagioni e prende anche i pesci più impegnativi e chi, pur bravo come Leo o, peggio ancora, un “milanese” come me, “no pigghia na…..”.
Le risate, lì per lì, si sprecavano, ma poi Leo, che fino a quel momento non aveva ancora rotto il ghiaccio, si incupiva. Questione d’orgoglio siciliano anche se, in fin dei conti, eravamo in mare con un grande della pesca in apnea che, per di più, giocava in casa!