Questo mese viaggiamo dalla Romagna, alla Toscana, all’isola di Pantelleria. Località e fondali diversissimi, accomunati da una sola caratteristica. Quella di poter essere raggiunti con facilità in automobile, parcheggiata la quale scendere in acqua da terra. L’ideale, quindi, avendo poco tempo a disposizione e dovendo magari inserire la pescata tra i mille altri impegni di un viaggio di lavoro o di una vacanza con la famigli
Alberto Martignani
Se capitate a Ravenna per una vacanza in Riviera o per una visita alle straordinarie bellezze artistiche di questa antica capitale imperiale, cercate di ritagliarvi un paio d’ore per un’uscita alla diga foranea sud.
Nessuna paura: l’accesso pedonale (o in bicicletta) è libero al pubblico (tranne quando viene chiusa per motivi di rischio meteorologico, gare di pesca o spettacoli) e la pesca in apnea consentita tutto l’anno, anche in piena stagione balneare, purchè si seguano alcune semplici norme: essere regolarmente segnalati da boa e bandierina ed evitare d’immergersi sia nei 500 metri iniziali che nei 100 metri finali (quelli prospicienti la punta).
Non a caso è uno spot conosciutissimo tra gli appassionati locali ma, seppur parecchio battuto, riserva spesso belle sorprese sia perché, essendo molto lunga, quasi 3 chilometri, consente una buona diluizione della pressione di pesca, sia perché l’imboccatura del grande porto-canale di Ravenna è un’incredibile zona di passaggio per molteplici specie ittiche, dai cefali ai grossi tonni, e funge da polmone per il continuo “ripopolamento” delle dighe.
Non mancano le specie stanziali (orate, spigole, serra, corvine, anguille, seppie) che vi stazionano tutto l’anno, anche nei mesi invernali, concentrandosi all’interno del porto o nei punti più profondi lungo le due dighe foranee, ove trovano quei 2 gradi in più che le portano ad abbandonare le barriere artificiali a protezione degli arenili a favore di questa località.
In diga, comunque, quasi nessuna cattura è preclusa: si potrà incontrare quasi di tutto, dalla grossa leccia all’ombrina, dal barracuda allo scorfano, persino qualche dentice (è capitato!).
La diga dista solo pochi chilometri sia dal centro di Ravenna che dalla Statale Adriatica. Basta seguire le indicazioni per Lidi Sud e, successivamente, Marina di Ravenna, che è una piccola ma piacevole località balneare. Potrete quindi trovarvi, in estate, un’ampia e ben curata spiaggia (proprio a fianco della diga) ove “parcheggiare” la famiglia e, in tutte le stagioni, alcuni rinomati ristoranti di pesce in zona darsena. L’enorme parcheggio alla base della diga consente di trovare sempre posto, anche a luglio e agosto.
Completata la vestizione, avremo due soluzioni. La prima è quella di imboccare a piedi la diga e di percorrerla per almeno 500 metri (sino al primo dei tre “casoni da pesca” presenti sul lato esterno). A questo punto, raggiunta la zona consentita, scenderemo in acqua dai tetrapodi. Se tuttavia vogliamo esplorare una batimetrica maggiore, e risparmiarci la lunga scarpinata con muta e pesi indossati, la soluzione possibile è quella di portarsi una bicicletta (o, se proprio vogliamo essere “alla
moda”, un monopattino elettrico) nel bagagliaio dell’auto e utilizzarla per raggiungere il tratto prescelto. Dovremo studiare bene il punto d’ingress, perché la discesa dai tetrapodi è insidiosa, e la superficie di cemento, in prossimità dell’acqua, è resa viscida dall’alga. Quindi guardare bene dove si appoggiano i piedi e fare attenzione anche a dove si posa l’attrezzatura; se qualcosa dovesse scivolare e cadere nelle intercapedini tra i blocchi, sarà pressochè impossibile recuperarla…
Una volta in acqua bisognerà studiarne la trasparenza nei vari strati. Consiglio di portarsi sempre due fucili, un 75 a elastico e in un 50 pneumatico (quest’ultimo armato di fiocina a 3 o 5 denti). L’acqua è mediamente più pulita che negli spot vicini a terra (soffolte e frangiflutti), e tollera, senza intorbidarsi eccessivamente, anche una modesta quota di moto ondoso, ma sono diverse le variabili che intervengono. Se ad esempio vi è corrente da nord, che porta acqua dalle foci del Pò e da quella, meno ampia, ma più vicina, del fiume Reno, è facile trovare acqua parecchio sporca. Potrebbe anche succedere che la visibilità sia a strati, per esempio molto torbida in superficie e sul fondo e limpida, addirittura caraibica, a mezz’acqua.
Bisognerà anche cercare di capire che cosa giri. Per esempio, se siamo in estate e sono presenti, come sovente accade, branchi di cefali e mormore, consiglio di astenersi dallo sparare ai primi esemplari che transitano davanti al fucile, poiché sarà probabile la presenza dei serra e non impossibile l’incontro con la grossa leccia. Le spigole ci sono tutto l’anno (ad agosto come a gennaio), ma logicamente la primavera e l’autunno sono le stagioni migliori.
Il tramonto e i cambi di marea, specie se in combinazione tra loro, sono i momenti da preferire. La tecnica da applicare in diga è semplice: si scivola lungo la franata di tetrapodi (che sul fondo poggia su un “letto” di massoni irregolari) sino a trovare l’appostamento e la quota giuste, in rapporto alle condizioni di visibilità e a cosa si vuole insidiare, per portare l’aspetto. Oppure si può scegliere di staccarsi una quindicina di metri dalla diga e scendere verticalmente sul fondo, a 5, 8 metri di profondità, sino a fermarsi al limite tra la franata di sassi e la sabbia, una zona sempre ben frequentata. La ricerca in tana, nelle ampie caverne delimitate dai tetrapodi, può riservare l’incontro con spigole, grossi cefali, scorfani bruni, gronghi e corvine, ma bisogna evitare assolutamente di entrare con l’ intero corpo nelle profonde insenature.
Una nota di colore: una volta risaliti verrete sicuramente avvicinati e interpellati (molto spesso in dialetto romagnolo) da qualche cannista, sempre numerosi lungo la diga e curiosi di sapere cosa avete visto girare sott’acqua. Fortunatamente i pescatori con la canna amano gettare le loro esche soprattutto all’interno del portocanale (a noi ovviamente precluso) per cui i rapporti con questa categoria sono sempre amichevoli.
Osservando da un’imbarcazione, o da uno dei tanti punti sopraelevati, la costa attorno a Piombino, potremmo tranquillamente pensare di trovarci in Corsica o in Sardegna: alte falesie a picco sul mare, con franate, punte, scogli affioranti e cale nascoste. E invece siamo a pochissima distanza da un ricco e popoloso centro della
Maremma Livornese, noto ai più solo per i suoi impianti siderurgici (per la maggior parte ormai in disarmo), per la controversa vicenda della nave rigassificatrice che dovrebbe attraccarvi e per il porto, punto di partenza degli innumerevoli traghetti per le isole tirreniche. In realtà, Piombino non è solo questo.
Presenta, ad esempio, un centro storico piccolo ma estremamente interessante. Da piazza Verdi, dominata dal Rivellino medioevale, si arriva a piedi, attraverso via Vittorio Emanuele II, alla splendida terrazza panoramica di piazza Bovio. Nei pressi, tutti i monumenti più importanti: il Castello, il Torrione, le Mura Leonardesche, la Casa delle Bifore e il Porto Antico, con le bellissime Fonti di Marina di Nicola Pisano. A meno di 10 chilometri di distanza, poi, troviamo il grande parco archeologico di Baratti e Populonia, con la possibilità di visitare i resti dei forni utilizzati in epoca etrusca per la fusione del minerale ferroso proveniente dai giacimenti elbani, con gli enormi cumuli delle scorie di lavorazione, e poi ancora la grande necropoli di San Cervone e l’acropoli di Populonia, dalla quale godere di un eccezionale vista sul Golfo di Baratti.
Quindi, i presupposti per passarvi almeno un week-end con la famiglia (contrabbandando – come al solito - l’attrezzatura da pesca) ci sono tutti! Se riuscirete a immergervi, la morfologia dei fondali non vi deluderà: vi sono secche raggiungibili anche da terra, sulle quali è possibile pescare un po’ a tutte le profondità, e punte che proseguono verso il largo in franate di sassoni.
La buona qualità generale delle acque è testimoniata dalla ricchezza della prateria di posidonia, che copre larghe estensioni di fondale alternandosi alla sabbia, ai lastroni e alle concrezioni tufacee. I pesci non mancano, anche se catturarli è tutt’altra faccenda, dato che la pressione alieutica cui questa costa è sottoposta li ha resi scaltri e diffidenti come in pochi altri luoghi.
Lo spot che andremo a illustrare è ideale per un’uscita rapida, dato che si trova appena fuori dal centro (alla periferia sud dell’abitato) ed è provvisto di un comodo parcheggio poco lontano dall’ingresso in acqua.
Stiamo parlando della cosiddetta “Secca del cimitero”, che si estende ai piedi della bassa falesia, a picco sul mare, su cui sorge il cimitero di Porta Vecchia. Ci sono stato qualche anno fa con l’amico Enrico Lorenzelli, esperto pescatore piombinese ed ex-agonista, che ha provato a spiegarmi qualche segreto di queste acque, per capire a fondo le quali è però necessario trascorrere davvero tanto tempo in mare e imparare a conoscere i punti topici e le influenze del tempo e della corrente sul movimento dei pesci.
A imbrogliare le carte sono intervenuti, negli ultimi anni, i lavori di ristrutturazione e ampliamento del porto che hanno modificato le correnti aumentando la torbidità in alcune zone. Senza parlare dell’arrivo periodico, governato a sua volta da venti e correnti, delle sospensioni di carbonato di calcio scaricate in mare dalle sodiere di Rosignano Solvay, alcune decine di chilometri più a nord.
Dal parcheggio del cimitero il panorama è comunque bellissimo e lo sguardo può spaziare sulle circostanti isole dell’Arcipelago Toscano e sulla retrostante costa Corsa, che appare incredibilmente vicina.
Completata la vestizione, è possibile scendere alla spiaggia, e poi in acqua, attraverso un breve sentiero sterrato. La “secca” consiste di un tavolato irregolare di grotto, frammisto a prateria di posidonia e a qualche agglomerato di massoni che
si estende sino a 300, 400 metri al largo, ove muore definitivamente sulla sabbia. La profondità massima è sui 14 metri e la parte più interessante è rappresentata dal versante meridionale, caratterizzato da un rialzo della roccia e da un successivo gradino, con base sulla sabbia.
Nel corso degli anni Enrico vi ha visto e preso di tutto nonostante la facile accessibilità ne facciano, logicamente, una zona parecchio battuta. La percezione che il pesce ci sia l’ebbi comunque anch’ io, in seguito all’avvistamento di una grossa orata, di numerosi saraghi e, in prossimità del tramonto, di un bel barracuda. Quest’ultimo lo intravvidi, purtroppo a distanza, proprio in corrispondenza della cigliata meridionale che risulta sempre tappezzata di mangianza (castagnole e mennole).
Un aneddoto curioso risale alla seconda volta che ci sono stato, questa volta partendo con il gommone. Era novembre ed eravamo a Carbonifera per il raduno della nostra “chat” di pescatori (erede della gloriosa e vecchia Mailing-List di Pescasub) e avevamo voluto uscire in mare, con un paio d’imbarcazioni, nonostante le condizioni manifestamente avverse. Giunti al traverso del cimitero, mi offrii di scendere in quel punto, dato che già lo conoscevo, mentre gli amici proseguivano per distribuirsi in mare oltre il promontorio di Piombino.
Fatto sta che ebbi appena il tempo di catturare una bella triglia e avvistare alcuni cefali che i marosi montarono in maniera insostenibile, impedendomi di pescare e costringendomi a prendere terra, non senza buscare violente ondate che mi fecero goffamente rotolare sulla battigia. Dato che l’altezza delle onde era tale da rendere difficoltoso il mio avvistamento dal mare, fui costretto a scalare una collinetta di massi, presente sulla spiaggia, al vertice della quale rimasi come una sfinge, la boa bene in vista, per quasi un’ora, sinchè non intravvidi al largo il gommone che veniva a recuperarmi. A quel punto ridiscesi in acqua per raggiungerlo, affrontando un vero e proprio maremoto…
La straordinaria isola di Pantelleria è ricca di punti dai quali è possibile, più o meno agevolmente, scendere in mare da terra. Ho scelto Scauri in quanto, nell’ottica di una pescata veloce, dovendo magari gestire moglie e figli, è uno dei posti più indicati che mi viene in mente…
Scauri è il secondo centro più importante dell’isola, dopo Pantelleria porto, e si colloca sul versante sud-occidentale. Dal capoluogo, lo si raggiunge percorrendo la strada perimetrale in direzione Punta Fram. Dopo 11 chilometri si arriva al porticciolo, a ridosso di Punta Tre Pietre.
Per scendere a pescare conviene passare oltre l’ingresso al porto e proseguire in auto per ulteriori 300 metri, sino al bar-ristorante La Vela, proprio sul mare, vicino al quale troveremo un comodo parcheggio per l’auto.
Dal ristorante, alcuni gradini scavati nella roccia consentono di raggiungere una spiaggetta su cui “parcheggiare” eventualmente chi ci accompagna, mentre noi proseguiremo a piedi ancora per qualche decina di metri sulla sinistra, verso una piccola insenatura che, a mio parere, rappresenta il punto migliore per scendere in acqua.
Conviene pinneggiare verso sinistra. Per i primi 200, 300 metri la scogliera di lava solidificata muore, con le sue colate monolitiche e le sue lame, solo parzialmente smussate dal gioco millenario della risacca, sulla sabbia, a pochi metri dalla linea costiera. Poi però la costa si alza a falesia, assumendo connotazioni spettacolari. Nonostante ciò, il fondo resta basso per almeno un paio di centinaia di metri al largo.
Alla base della scogliera una serie di puntarelle e di scogli affioranti consentono, se vi sono le condizioni, di pescare in schiuma, in pochissima acqua. Allargandoci, compare una bella franata di massi arrotondati, che, sempre in pochi metri d’acqua, rappresenta a mio avviso il punto migliore.
La bellezza e la suggestione del luogo sono incrementate, una volta tanto, dall’opera dell’uomo. Nel tratto che va dall’ingresso in acqua all’inizio della falesia sorgono resti di epoca Romana, visitabili con una breve passeggiata. Si tratta di mura a secco, fondamenta di abitazioni, antiche cisterne. Va infatti ricordato che, in epoca Romana, Scauri rappresentava il principale approdo dell’isola, ben ridossato dai venti di maestrale, tramontana e levante.
Peraltro, all’ingresso del porto, a una profondità tra i 6 e i 10 metri, è presente il relitto di una nave del V sec. d.C., che portava dall’Africa un carico di vasellame, i cui cocci sono sparsi sul fondo.
Oltre questo tratto, come dicevo, la falesia s’impenna, raggiungendo il punto più alto, circa 100 metri, che ospita l’abitato di Scauri. Ancora oltre apprezzeremo la mole chiara del cimitero monumentale, costruito quasi a strapiombo e più simile, da lontano, a una fortezza arroccata.
Sono stato a pescare a Scauri due volte: la prima, nonostante fosse giugno e la costa risultasse ridossata rispetto al maestrale che imperversava, l’acqua era fredda, sui 17 gradi e girava veramente poco pesce. Vidi qualcosa solamente sulla già citata franata di massoni tondi: cefali, un paio dei quali riuscii a catturare, e qualche branchetto di barracuda: ne presi uno con un aspetto ben nascosto tra i sassi. Ricordo di aver pescato mai più profondo di 7, 8 metri.
Tornai qualche giorno dopo. Il vento aveva girato a scirocco e il mare era più mosso, ma aveva guadagnato 1 o 2 gradi di temperatura. Mi divertii decisamente di più perché erano usciti i saraghi e ne catturai diversi agguatando nella risacca, sempre nel settore in cui erano presenti quei particolari sassoni tondi, che devono essere una caratteristica dell’isola, in quanto ricordo di averli trovati anche in altri punti, ad esempio alla balata dei Turchi (ma questa è un’altra storia…).
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