Una piacevole chiacchierata con Giambattista Sedda, ragazzo sardo che si immerge assiduamente nella costa Stintinese seguendo una filosofia e un’etica tutta sua. Aneddoti e racconti condivisi con il suo inseparabile novanta a singolo elastico
Jack Cubeddu
La costa di Stintino ha da sempre rappresentato un ottima palestra per i pescatori di tutto il mondo, che trovano nella limpidezza delle sue acque un ottimo banco di prova per affinare le tecniche. Dalla mia frequentazione di questa splendida location, è nato l’incontro e la piacevole chiacchierata con Giambattista Sedda, un ragazzone classe ’79 che con il suo novanta monogomma affronta il basso e il medio fondo che dall’Isola dei Porri si estende sino alla costa di Unia.
Una porzione di costa tanto bella quanto selvaggia. Accessibile unicamente in gommone oppure attraverso i pochi accessi privati, condizionati comunque da lunghe camminate per raggiungere la linea di costa.
Il meteo da lupi di quel periodo non ci permette di bissare un’uscita in mare che abbiamo già avuto modo di goderci tempo fa. Così, per rivivere un po’ di storie piene di salsedine ci ritroviamo davanti a un buon caffè.
«Sono sempre stato un solitario!”. Esordisce così raccontandomi come si è formato e come è cresciuta questa sua passione per la pesca.
«Nonostante abbia avuto il buon esempio di mio suocero Maurizio, ottimo tanista e ex compagno di avventure del compianto Andrea Parodi, ho sempre trovato più gratificante portare insidiare le prede al libero.
Aiutato anche dalla morfologia della costa di casa, ho allora iniziato a dedicare intere uscite all’agguato.
«Ero molto impreparato, allo sbaraglio, non c’erano video né social, e sperimentavo mano a mano ciò che mi veniva consigliato o che leggevo sulle riviste - ci spiega ancora Gianbattista -. Non c’erano schienalini, o per lo meno non era così ovvio il loro utilizzo, e utilizzavo la sola cintura, aumentando la mia pesata aggiungendo pietre sotto la stessa oppure sotto la coda della giacca. Il contesto per fortuna mi incentivava negli incontri e in parte mascherava la mia impreparazione e i miei errori, permettendomi comunque di portare a casa qualche preda.
«Mi immergevo lungo la costa poco prima e poco dopo i Porri, ma anche attorno all’isola, fondali che permettevano di crescere e affinare la tecnica grazie ai massoni e alle lunghe creste di roccia presenti. Il mio compagno già da allora è sempre stato un novanta, sostituito poi negli anni, con l’unica prerogativa rappresentata dal monogomma; semplice, essenziale e dalla facile gestione e dalla rapida ricarica.
«Pian piano e sempre da autodidatta ho iniziato a definire le “mie” condizioni ideali per uscire a pescare. Iniziavo ad apprezzare le scadute di mare e a dare il giusto peso a fasi lunari e maree. Per non parlare poi dell’ossessione per alcune specie. Oltre ai classici cefali, saraghi e spigole, che nei primi periodi erano il pane quotidiano delle mie scorribande, è iniziata una vera e propria “malattia” per le orate. Un pesce che vedevo spesso, anche di grosse dimensioni, ma che ho dovuto studiare ma, soprattutto, sbagliare prima di averne ragione.
«Così, con il passare degli anni e con l’esperienza dettata dalle tante uscite, ho definito quello che era, ed è tutt’oggi, il mio percorso di caccia ideale. Le uscite partono sempre dalla stessa porzione di costa, indipendentemente dalla corrente. Ciò che cambia è l’approccio alla giornata, che definisco una volta che arrivo al mare. Lì, in base alla condizione dell’onda decido se scegliere la fascia bassa oppure quella media. Nella parte bassa e con onda formata prediligo un agguato stando ben piombato, seguendo i lunghi canali che da fuori si snodano sin sotto la schiuma. La soluzione migliore per insidiare cefali, spigole, barracuda, saraghi e qualche orata senza venir risucchiati dal formarsi dell’onda.
«Con il mare piatto o increspato, risulta invece più proficuo optare per una batimetrica media, dove lunghi pianori e qualche gruppo di massi e lastre isolate permettono di condurre degli aspetti ben riparato. In questi casi non è raro l’incontro con grossi saraghi, corvine e, con un pizzico di fortuna, con qualche bel dentice.
«Nonostante si tratti di uno degli spot più pescosi, capitano spesso anche i cappotti o le giornate con pochi pesci visti e ancor meno catturati. In questi casi, preferisco continuare a insistere oppure, in alternativa, concludere l’uscita. L’ipotesi di ripiegare in qualche preda nascosta tra gli anfratti non mi sfiora proprio.
«Ho iniziato a pescare “rinunciando” alla tana nonostante avessi un ottimo maestro al fianco, scegliendo una tecnica che, anche se meno proficua, ritengo più gratificante. Con un monogomma come compagno il quale, nonostante i tempi in continua evoluzione, rappresenta per me ancora oggi l’optimum della semplicità e della resa».
E’ capitato anche questo…
«Due giornate recenti di cui ho un fantastico ricordo. Nella prima stavo pescando lungo i canali con il mare formato, nella seconda mi stavo immergendo all’alba in una fascia media, cercando il predone all’aspetto.
Quel giorno di onde c’era un bel giro di pesce. Una condizione ideale per far carniere di cefali e saraghi, anche se un occhio era in continua ricerca della regina della schiuma. Eravamo in piena primavera, probabile motivo e causa della loro assenza. Ma l’insistenza delle mie azioni gioca a mio favore.
«Mentre effettuo l’ennesimo agguato lungo un canale, mi trovo in una lunga piana dove frange l’onda. Una grossa coda si fa notare per poi sparire nel bianco della schiuma. Sembra una spigola, ma non ne sono sicuro. L’ennesima onda mi afferra e mi sposta oltre la piana, perdendo così il contatto e la posizione.
«Demotivato (ma non del tutto) per l’occasione sfumata, decido di rieseguire lo stesso agguato con cui sono arrivato alla piana. Scelta fortunata!
Dal bianco un grosso muso mi punta quando sono quasi a metà strada. E’ lo stesso pesce visto precedentemente; una grossa spigola che arrivata frontalmente mi permette di spiedinarla. Quattro chili e mezzo per questa bella preda primaverile».
«Altra giornata particolare è quella capitata lo anno. Era l’inizio dell’estate e l’acqua era ancora parecchio condizionata dal termoclino.Visti i cappotti delle ultime uscite, decido di tentare un’albata, incentivato dalla fase lunare che mi invoglia nonostante la quasi totale piatta di mare. Però, dopo la prima ora penso di aver sbagliato tutto e sono quasi tentato di tornare a terra.
«La zona è un deserto e i pochi pesci presenti sono molto nervosi. Abbandono gli agguati e inizio una serie di aspetti che mi permettano, stando fermo, di ragionare meglio sul da farsi e studiare questa apatia diffuso. Durante l’ennesimo aspetto, ben nascosto dietro un masso, mi sento osservato alle spalle. Nel ruotare la testa e il mio novanta, mi trovo faccia a faccia con un dentice. Il pesce, seguendo la corrente, cacciava nella mia direzione. Tiro senza storie e preda insagolata.
«Sono soddisfatto, l’animale farà registrare poco meno di quattro chili, e decido che di rientrare, senza però rinunciare a qualche altro aspetto. Cento metri più avanti la sorpresa che chiude definitivamente la giornata.
Probabilmente l’euforia per la prima cattura e la costanza dei tuffi mi mette faccia a faccia con un altro dentice, più grosso, che arriva di muso, completamente indaffarato a predare la mangianza. E’ davvero grande e non sono troppo sicuro dell’esito del tiro frontale. Aspetto così il leggero defilarsi per lasciar partire il colpo poco dietro la branchia.
«L’animale ha una reazione violenta e va a intanarsi sotto un piccolo lastrino. Sarà sufficiente un secondo tuffo per estrarlo e aver ragione della fantastica preda, a completare una giornata che resterà tra i migliori ricordi di pesca. Una coppiola da sogno, incredibilmente finalizzata grazie al mio compagno di mille battaglie: l’essenziale monogomma!