Questo tratto di costa, per buona parte fangoso, presenta alcune zone interessanti sia a terra sia al largo, dove svettano le Secche dei Campanari. Ed è lì che vivono i serranidi a quote variabili tra i 20 e i 30 metri
di Stefano Tovaglierie
Ricchissima di storia e di natura, la costa di Cefalù si estende per circa 30 chilometri fra Lascari e Pollina, alternando lunghi tratti di spiaggia rettilinea a baie e piccole insenature, con scogli bassi e pure costoni a strapiombo sul mare.
A ridosso della costa, dopo una brevissima fascia pianeggiante, si affacciano alte colline, le prime propaggini del sistema montuoso delle Madonie. Ed è proprio da queste importanti montagne che originano geologicamente le formazioni rocciose che affacciano sul mare. Insomma, Cefalù è l’ideale per quelle famiglie che in vacanza vogliono conciliare la pesca con tutti gli altri interessi.
Oltre al porto vecchio, situato nel centro storico del borgo storico, c’è il porto nuovo, proprio sotto la Rocca. Chiamata localmente in cefaludese “u castieddu”, è una straordinaria rupe, alta 268 metri, che sormonta Cefalù a ponente, mentre girando da nord a levante domina il golfo.
La scorsa estate, in compagnia di due straordinari pescatori e amici, ho trascorso un paio di giornate nel tratto di mare che dal porto si estende a levante, fino a Capo Rais Gerbi. Leonardo Guida, già barcaiolo per un decennio di Maurizio Ramacciotti e profondo conoscitore di questi fondali, che frequenta da quando era bambino, ci ha accompagnato alla scoperta di questo tratto di costa, non sempre facile da approcciare a causa della totale esposizione ai venti da nord del primo e quarto quadrante. Con noi, un agonista d’eccellenza: Totò Natoli, di cui vi racconterò in un prossimo articolo una giornata nel suo mare, quello di Terrasini.
Erano i primi giorni di agosto. In piena stagione estiva, il traffico di numerosi natanti lasciava intendere che non avremmo avuto vita facile. Leo ci aveva anticipato che in quel periodo non sarebbe stato semplice trovare acqua limpida. Già! Pescare nel torbido, se da un lato può regalare qualche bella soddisfazione, dall’altro rende il tutto un po’ meno affascinante.
Il ritrovo quella mattina era di buon’ora: alle sette eravamo al bar del porto, a Cefalù, per un caffè e pronti a partire. Una giornata da urlo, con condizioni meteomarine fantastiche e tante aspettative in tasca.
Bevendo il caffè Leo ci anticipa l’itinerario che avrebbe occupato l’intera giornata, fino al calasole. «Oggi picciotti – ci racconta Leo con ironia - vi porto in posti che voi umani non avete mai visto. Dal porto fino alle secche dei Campanari, esploreremo una serie di spot che conosco da anni e che fanno belle cernie bianche. A volte si incontrano anche famiglie di saraghi e qualche polpo. Poi, ci sposteremo dall’altra parte del golfo, a levante, sulle Secche dei Campanari. Li è capitato più volte di incontrare dentici, ricciole e anche cernie brune. Sono il punto più interessante, ma lungo il tragitto ci sono altre zone di rocce isolate che a volte fanno pesce e che andremo a esplorare».
Pochi attimi ed eravamo in mare aperto, davanti al braccio lungo del porto. Leo ci guida su un segnale che fa poco più di venti metri. «Andiamo ad assaggiare l’acqua; vediamo quanto è pulita». Si tratta di un blocco di cemento appoggiato sul fango. In genere ci vivono le cernie bianche. Con lo sguardo fisso sul Gps, Leo ci porta sul punto.
L’acqua dalla superficie sembra tutto sommato limpida. «Ok, è il vostro momento!». Senza farcelo ripetere due volte scivoliamo in acqua; io da un lato e Totò da quello opposto. Tre respiri e sono giù. Totò mi assiste dalla superficie. Ha voluto lui che fossi io a inaugurare la giornata. I metri scorrono sotto di me, tutto si appiattisce. C’è una fitta coltre di sospensione che rende torbida l’acqua negli ultimi metri, proprio nel termoclino.
Un attimo di spaesamento e poi ecco stagliarsi dal fondo l’ombra scura della pietra che potrebbe celare qualche serranide. L’approccio in caduta mi permette di giragli intorno per ispezionare ogni angolo. Niente. Solo qualche sarago fasciato, ma sottomisura.
Risalito in superficie riferisco le condizioni di visibilità al mio compagno e al nostro barcaiolo, che ci raggiungeva in quel momento. Non c’è corrente, ma là, sotto il termoclino, l’acqua è davvero torbida.
Uno sguardo incrociato è sufficiente per intenderci: ci spostiamo. Durante il tragitto Leo ci racconta che in quella zona il fondale fangoso spesso intorbidisce l’acqua. Questione di termoclini e correnti che sollevano polveroni. A volte, così come si formano in fretta, questi polveroni, altrettanto velocemente svaniscono; nel giro di pochi minuti, o anche da una pietra all’altra. Per cui di comune accordo decidiamo di dirigerci davanti al porto e verso levante per ispezionare altri segnali.
Si tratta di pietre, blocchi di cemento appositamente messe in mare per dissuadere la pesca a strascico sotto costa, tubi abbandonati e altri manufatti che, in mezzo al fango, rappresentano possibili rifugi per prede interessanti.
Segnale dopo segnale ci alterniamo io e Totò, ma nulla. Ancora uno spostamento. Questa volta siamo un po’ più al largo. Ci muoviamo su un fondale di circa 26, 28 metri. La nostra guida ci spiega che in quello spot troveremo due pietre una appoggiata all’altra e che, in più occasioni, tra le due pietre ha visto, e qualche volta ha catturato, diverse cernie bianche.
Ancora una volta sono io a immergermi per primo, mentre Totò resta in superficie a farmi assistenza. Dopo la capovolta forzo con la pinneggiata nei primi metri, poi mi lascio cadere. L’acqua sembra più pulita; infatti intravvedo il fondo e l’ombra delle pietre già da mezz’acqua. Mentre plano mi tornano in mente le parole di Leo, che mi diceva «Stefanino, guarda sempre anche attorno alle pietre perché a volte i pesci stanno fuori, appoggiati sul fango». Già! Proprio così; ed ecco una cernia bianca. E’ proprio appoggiata sul fango, a pochi metri dai massi. Nemmeno il tempo di stendere il braccio con l’arbalete e già si era sollevata dal terreno, mettendosi in posizione d’allerta, pronta a scattare.
L’intuito, una frazione di secondo e la cerniotta scattava verso l’incavo tra i due massi. Ed è proprio li che l’aspettavo! Avevo capito che quello sarebbe stato il suo rifugio e così avevo anticipato la sua mossa. Il tiro al volo e poi l’asta che sbatteva; era la prima cattura della giornata. Mentre risalivo ripensavo a quell’azione e a un dettaglio che, lì per lì, non avevo avuto modo di valutare perché completamente focalizzato su quel pesce.
Mentre osservano l’entrata tra i due blocchi in prospettiva di anticipare la mossa della cernia, avevo notato un guizzo di un altro grosso pesce, sul lato opposto dei massi. La scarsa visibilità non mi aveva permesso di capire chiaramente di che si trattasse, ma mi ero convinto che fosse un’altra cernia bianca; decisamente più grossa. Molto più grossa di quella che stavo portando in superficie.
Appena riemerso e sistemato il pesce, incito Totò a immergersi ancora su quei sassi. «C’e n’è un’altra più grande - gli dico - e si è infilata tra i due blocchi».
Intanto che passavo il pesce a bordo, Totò s’immergeva. Le condizioni erano dalla nostra parte. Assenza totale di corrente, che ci facilitava il mantenimento del punto e la visibilità, che rispetto agli spot più a terra era decisamente migliore.
Neanche un paio di minuti ed eccolo riemergere con l’arbalete in mano, mentre la sagola dell’asta, sotto di lui, si perde nel blu. Ci guardiamo negli occhi, ma Totò non ha ancora ripreso fiato per parlare anche se il sorriso degli occhi dice tutto. Abbasso lo sguardo ed eccola risalire dal fondo tirata dal sagolino. Wow, è una cernia bianca di almeno 7 od 8 chili.
Risaliti in Gommone decidiamo di spostarci dall’altra parte del golfo: verso Capo Rais Gerbi. Poco prima, a circa mezzo miglio, ci sono alcune risalite: le Secche dei Campanari. Si tratta di una serie di cappelli a profondità che variano tra gli otto e i quindici metri. «Lì, nelle giornate giuste - ci racconta Leo - ci sono dentici e, a volte, pure le riccioletta, oltre a tutto il resto, comprese le cernie brune e pure quelle bianche, che alle pendici dei sommi, tra i 25 metri e fino a oltre i 35, hanno le loro tane».
Questa volta è Totò che si “sacrifica” a fare da barcaiolo. Leo scenderà in acqua con me. Ed è lui il primo a tuffarsi. Si tratta di una risalita che fa cappello a circa 8 metri, ben visibile dalla superficie. L’ambiente è davvero suggestivo. Merito dell’acqua decisamente più limpida, ma anche delle formazioni rocciose che s’innalzano dal fondo come vere e proprie guglie di una cattedrale e sono tappezzate di coralligeno e gorgonie blu nella parte più profonda. Forse è per queste che le chiamano i “Campanari”. Sembrano proprio dei campanili che escono dal terreno isolati gli uni dagli altri. In modo sparso. Uno spettacolo arricchito dall’acqua che, dopo i 23 metri, si intorbidisce e crea una sorta di sfumatura.
Dalla superficie intravvedo Leo appoggiato all’aspetto e dai piccoli movimenti intuisco che qualche predatore probabilmente incrociava nei paraggi. Poi lo sparo e lo stacco deciso dal fondo, con le specchiate del pescione che si dibatteva sull’asta. Un denticiotto di buona taglia. Il posto è bellissimo, ma il pesce scarseggia, così decidiamo di risalire in gommone.
La giornata oramai volgeva al termine e il calasole si avvicinava. Leo ci propone una tregua per rifocillarci prima di spendere le ultime energie nel momento più magico; quando il sole si tuffa nel mare.
Non sto nella pelle. In barca i racconti si sprecano; nelle ultime discese avevo visto un paio di cernie brune. Erano in parete, in candela, ma erano molto nervose e fonde; oltre i 30 metri. Nemmeno il tempo di “salutarle” che erano sparite nell’abisso.
Questa volta è Leo a riprendere possesso del timone. «Avviciniamoci a terra, sui sommi più bassi - ci dice - magari fanno più pesce». Poco dopo eravamo pronti a scendere in acqua sui Campanari di terra.
Giunti sul punto ero io a scivolare in acqua per primo. Ero senza arbalete, in attesa di riceverlo dalle mani del barcaiolo. Giusto il tempo di mettere la faccia sottacqua per guardare la risalita e …. che spettacolo! Un giro di ricciole di taglia, stimate tra i 15 e i 20 chili, stavano nuotando dal fondo verso la superficie per venire a vedermi. Saranno stati almeno una quindicina di pesci. Non avevo mai visto nulla del genere. Ricciole grosse sì, ma in genere a gruppi di due o tre esemplari. Tante tutte assieme e di quella taglia mai! Alzo la testa e grido a Leo: «le ricciole, passami il roller».
Veloce capovolta con l’idea di posizionarmi a mezz’acqua. Il dubbio era forte: chissà se sarebbero tornate dopo essersi inabissate? La risposta l’avrei avuta da lì a poco! Qualche pinneggiata ed ero in posizione, nel mio punto di assetto neutro. Lì non mi muovevo più; non andavo né su né giù. Ed eccole di nuovo rimaterializzarsi dal blu profondo. Sembrava un sogno. Venivano senza esitazione, incredibile! Attimi di adrenalina pura poi, lasciate sfilare le prime, concentro tutta l’attenzione su un esemplare più grosso, proprio nel mezzo del branco. Nemmeno un metro dalla punta dell’asta e bang! L’asta che passa da parte a parte il pescione, che reagiva fulmineo nuotando verso il basso.
Risalito in superficie mi ritrovavo accanto al gommone. «L’ho presa - grido pieno d’entusiasmo - poi metto mano al mulinello per iniziare a lavorare la ricciola. Un attimo, poi più nulla. Non sentivo più tirare. Impossibile che si fosse strappata, era presa davvero bene!
Con il volto carico di delusione cominciavo a recuperare il sagolino che mi arrivava senza nemmeno il peso dell'asta. Infine l’amara sorpresa! Il rivetto del nylon aveva mollato e il pesce si era portato via tutto.