La ricciola è un navigatore perfetto. La classificazione della specie "pelagica" la dice tutta. Da solo, questo termine semplifica ogni più complesso tentativo di spiegazione. "Del pelago", ossia del mare aperto, una definizione che in un appassionato come me invoca storie lontane di lotte per la sopravvivenza, viaggi migratori, storie di caccia in branchi organizzati, visioni e incontri con mostri marini di dimensioni impensabili. E poi storie di porti e di pesche miracolose come solo tanti anni fa si poteva fare in maniera "naturale", senza l'ausilio di tecnologia, di sonar, radar e di altri strumenti che rendono ora ogni lotta una “non lotta”, proprio per la disparità di mezzi tra l'uomo e il pesce
Juri Cinà
Quando ho la fortuna di incontrare una ricciola penso sempre di aver a che fare con una sorta di divinità marina, nella quale la sua bellezza, la sua eleganza e la sua maestosità nel nuoto mi rendono parte di quel mondo, mi assorbono totalmente, dall'avvistamento all'inevitabile sparo. Una trance di alcuni secondi che ripercorro per settimane dopo l'avvenimento.
mi piace definirla la regina curiosa. Maestosa ma con un difetto mortale che la spinge, quasi sempre a guardare da vicino quell'intruso che emette quelle vibrazioni percepite dalla sua imponente linea laterale. Quell'intruso che può essere, potenzialmente, una mega sarda da inghiottire al volo nel suo percorso migratorio e alimentare tra la costa e il pelago. Ma non solo…
È proprio all'aspetto che ho avuto le più belle emozioni e scariche adrenaliniche. Ho avuto la fortuna, nello stesso identico posto sottocosta, di essere avvicinato da due maestosi branchi a una settimana di distanza l'uno dall'altro. Due aspetti fruttiferi, quasi sempre il primo o il secondo della giornata, in albate da veri campioni del sonnambulismo. Che solo al pensiero di essere in acqua alle cinque e trenta del mattino c'è da farsi delle domande serie e non darsi, volutamente, delle risposte.
Noi siamo così. Cerchiamo la perfezione della forma fisica tutto l'inverno per essere i primi (e quindi perfetti anche nell'organizzazione logistica della caccia), durante il periodo buono. Sì perché la ricciola va e viene durante tutto l'arco delle stagioni "tiepide" e di quelle calde, ma tra maggio e giugno ho sempre notato e assistito agli spettacoli più belli.
Il 2015 è stato un anno particolarmente “riccioloso”. Ne conto diverse decine di chili all'interno del congelatore. Avrei da saziare un quartiere, ma in realtà le scorte mi servono per le stagioni fredde, nelle quali è quasi d'obbligo praticare l'agguato e la ricerca in tana nel bassofondo, tecniche che però ripudio....
Ho già in programma diverse cene che, tra amici e parenti, mi aiuteranno a dar fondo alle scorte sottovuoto. Questa è la mia filosofia. Altre filosofie porterebbero a monetizzare il peso del freezer al netto della tara, ma io non concepisco questo tipo di logica e attività. Perderei la passione, il gusto post sparo e la felicità del "momento sfilettamento", per me sacro.
Era un'alba di maggio quella che mi ha visto protagonista di un evento meraviglioso. La sera prima, al calasole, avevo strappato un'enorme palamita. L'umore non era dei migliori e per di più Zac, il mio compagno di pesca del week end, si fa trovare alle 5.30 di mattina già in macchina in uno stato pessimo, frutto di una colica notturna. Decide magnanimamente di farmi comunque da barcaiolo e, da questo momento in poi, devo questa mattinata speciale a lui visto che il mare è grosso e non consentirà l'ancoraggio.
Ci dirigiamo su uno spot a me molto noto e fervido di attività faunistica a inizio e fine stagione. Solitamente vi insidio i dentici, ma è un luogo di culto marino, dove può passare di tutto. Un posto difficile, con i primi nascondigli a non meno di 17/19 metri; la corrente è spesso forte oltre i primi 2/3 tuffi è tempo perso, quindi eseguire al top proprio quelli è fondamentale. Alle 6 di mattina non è mai facile per niente.
Il primo è un "disastro relativo". Passa subito una squadriglia di palamite in assetto da guerra. Le prime due sono a tiro e non posso non sparare. Spesso evito di premere il grilletto su altri pesci (anche se palesemente da carniere) se ho un obiettivo ben preciso. Lo faccio per non bruciare lo spot, ma la palamita per me è irresistibile. Ogni volta che le incrocio, le vedo già nuotare sotto forma di vasetto sott'olio, sento già l'odore dell'alloro e dell'olio buono. Sparo senza pensarci e ammetto che la furia di questo pesce colpito mi eccita come pochi.
Insomma, metto in gommone un bel esemplare di due chili e mezzo, mi rilasso, mi riconcentro e torno in acqua. Devo per forza di cose spostarmi di qualche decina di metri, ho un fucile dalla botta pazzesca che si sente sino a Gibilterra, compromesso con la grande potenza e precisione di quest'arma fantastica in carbonio, concepita in un garage al piano interrato di una palazzina in piena pianura padana. Lo schioppo ha senz'altro rotto qualche uova nel paniere, penso.
Secondo tuffo della giornata. Ho lo stato d'animo sereno di quando hai già in gommone una preda. Sono certo però che, con un po' di fortuna, la mattinata possa essere ancor più fruttuosa. La frase "Conosco una lastra" è spesso usata dai tanisti che, sotto quelle loro note, scovano saraghi d'altri tempi in quantità industriale. Per me invece è diverso. Io conosco lastre sulle quali spalmarmi ad aspettare.
Attendo e osservo il nuoto spesso univoco e uniforme della mangianza, danze cadenzate utili alla sopravvivenza di molti a discapito di pochi. È bellissimo come le castagnole, le boghe e tutti i pesci di branco siano in simbiosi comportamentale tra di loro. Ogni vibrazione, ogni pericolo viene trasmesso da un capo all'altro della nuvola di piccoli pesci. I movimenti sono bellissimi e a me utili per estraniarmi dall'apnea in sè, catapultarmi nella realtà marina e allungare le apnee con statiche nelle quali divento praticamente un biologo.
Ecco. Il segnale è partito da una delle prime castagnole in alto sulla colonna d'acqua e si trasmette sino alle ultime vicine alla "mia" lastra di granito, giù a 19 metri. Mi schiaccio anch’io come sta facendo tutta la mangianza. È quel momento che sogno spesso. Lo sogno quando mi alleno nuotando, lo scorro con la mente mentre corro d'inverno alla ricerca della forma primaverile. Ogni tuffo me la immagino. È l'attimo della scossa adrenalinica, quella che ti allunga pericolosamente l'apnea e ti fa andare qualche secondo su Marte.
L'attimo dopo l'esplosione di adrenalina, eccole. Un branco infinito di ricciole a 15 metri da me verso la superficie. Mi chiedo se mi abbiano sentito, percepito, annusato. Vedo la formazione anteriore del branco scorrere tranquilla e allora alzo leggermente il busto e in quel momento, finalmente, la seconda parte della brancata e vira verso di me. Sono tantissime, non so quante, ma oltre quaranta pezzi di sicuro, con taglie diversissime che inizialmente non percepisco.
Sono ormai a pochi metri dalla punta del fucile, tranquillissime e curiosissime. Ricordo di aver pensato in maniera nitida che sarebbe stato un gran peccato prelevarne solo una da un branco simile. Ne metto in mira una credendola tra le più grosse e aspetto ancora. Finalmente se ne allinea una seconda, sono sulla stessa traiettoria. Sparo.
Nel fuggi fuggi generale non capisco se sono riuscito realmente nella coppiola, però sono sicuro di averla presa male... almeno una delle due. Per questo motivo decido di farle filare, cercando di tenerle sempre sollevate dal fondo. Passano pochi minuti ed eccole, nel blu, dimenarsi attorno alla sagola.
Sono meravigliato, soprattutto per la mia freddezza e lucidità decisionale: infatti, è coppiola! Alla bilancia le ricciole fanno pesare 7 e 3,5 chili. Quella mattina ho fatto la storia, un pezzo vero della mia storia marina, sicuramente da raccontare ai nipoti.